di Talita

 

Sono nata in Brasile nel 1990. Abitavo in una delle favelas di Carapicuíba, a San Paolo.

 

Ho sempre avuto un carattere dolce e sensibile, anche da bambina, ma il passato mi ha segnata nel profondo e difficilmente potrò rimuoverlo dal mio cuore. Conservo un ricordo sfumato della mia famiglia, ma mi è rimasta impressa la sensazione che fossimo in tanti.

Di tutti i componenti familiari rammento soltanto un neonato e i suoi pianti. Forse quell’esserino era mio fratello. Lo prendevo in braccio e lo coccolavo per ore.

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Ogni giorno, davanti alla baraccopoli sfrecciavano furgoncini colmi di arance che cadevano per terra a ogni sobbalzo dei mezzi. Io le raccoglievo per nutrirmi.

 

Adesso ho la mia famiglia, una famiglia vera. Tuttavia, la mia vita è ancora incompleta e so che farò tutto quanto possibile per riempire i vuoti che mi porto dentro da troppo tempo.

 

Una sera, un colpo di pistola ha sconvolto la relativa tranquillità della nostra casa fatiscente. Siamo corsi tutti fuori e abbiamo trovato mio padre a terra, morto.

 

La mamma, una bellissima mamma con gli occhi neri come l’ossidiana e i capelli lunghi e setosi – niente potrà mai cancellare dalla mia mente questa immagine mi ha detto con uno sguardo affranto: «figlia mia, non posso tenerti».

 

Non l’ho più vista. Da sola, con un bambino piccolo in braccio, mi sono ritrovata per strada. Non ero in grado di dargli da mangiare e così l’ho lasciato davanti una porta, ho bussato e me ne sono andata.

 

Le ore passavano e io ero sempre sola. Ho cercato aiuto presso un orfanotrofio, mi hanno ospitata, ma mi trattavano male. Sono fuggita via, ero di nuovo per strada.

Ma ecco che una famiglia mi ha accolta per poco tempo e in seguito mi ha accompagnato in altro istituto, una struttura molto grande dove anch’io dovevo dare una mano: prima di consumare i pasti, aiutavo un piccolino a mangiare e lo facevo addormentare. Non so perché, ma immaginavo che fosse un mio fratellino.

Dopo di che, ricevevo il mio piatto con le pietanze ormai fredde.

 

Pregavo ogni sera, pregavo di avere una famiglia che mi volesse bene, finché un giorno mi è stato detto: «cara Talita, abbiamo una famiglia per te!».

 

Piangevo per la contentezza, non vedevo l’ora di incontrare i miei nuovi genitori. Quel giorno incredibile è arrivato, però nel mio cuore e nella mia mente c’era sempre la mia mamma.

 

A 8 anni ho incontrato la mia famiglia adottiva e ho versato tante lacrime. Arrivati in Italia, è emerso tutto il mio malessere, non mi sentivo felice, non stavo bene, ero una bambina ribelle, reclamavo la mia mamma.

 

Negli anni della scuola elementare sono stata vittima di un bullismo perpetuo: ero arrivata con i pidocchi e la cosa non è stata facilmente dimenticata, anche perché portavo i capelli corti.

In classe osservavo i miei compagni gettare le merende nel cestino. Io andavo a ricuperarle e le assaggiavo. Ogni volta, gli insegnanti lo riferivano a mia madre, allarmati. Per me era complicato spiegarmi, a quell’età avevo ancora difficoltà a esprimermi in italiano.

 

Il rapporto con i miei genitori adottivi è stato difficilissimo. Avevo l’impressione che preferissero la mia sorellastra e lo penso tuttora. Riconosco che adottandomi mi hanno salvata, sarei potuta morire, ma io mi sentivo un’estranea.

 

Adottare significa accogliere un bambino con il cuore. Mamma e papà invece erano concentrati sulle cose pratiche, come festeggiare le ricorrenze, acquistare oggetti e indumenti di marca, cose di cui a me non importava niente.

 

Desideravo soltanto il loro amore e invece non ho percepito segnali di affetto. Ci ho messo del tempo a comprendere cosa significa amare un figlio, l’ho capito sulla mia pelle.

 

La mia vita è andata avanti tra pianti e pensieri angosciosi, finché ho deciso di iniziare la ricerca: voglio ritrovare la mia mamma, ma so che è complicato perché non dispongo dei documenti che attestano le mie origini.

Spero che un giorno il mio sogno si potrà avverare, voglio sapere se la mia mamma è viva, se davvero ho fratelli o sorelle.