Al momento stai visualizzando True Mothers

True Mothers

Tempo di lettura: 3 minuti

“Non ti sto chiedendo di restituirmelo. So che non posso farlo. Ma voglio che lui sappia che non l’ho mai dimenticato.”

Leggi tutto: True Mothers

Questa frase racchiude l’essenza della tensione tra la perdita e l’amore, rendendo palpabile il sacrificio e la sofferenza che spesso si nascondono dietro la decisione di dare un figlio in adozione. Viene pronunciata dall’adolescente Hikari nel film “True Mothers”, e riflette il profondo legame emotivo che Hikari sente verso suo figlio Asato e il suo desiderio di essere riconosciuta come parte della sua vita, anche se non può più essere la madre che lo cresce.

“True Mothers” è un film giapponese del 2020 diretto da Naomi Kawase, che affronta con delicatezza e profondità il tema dell’adozione. La storia ruota attorno a due donne: Satoko, che vive una vita apparentemente serena con suo marito e il loro figlio Asato, e Hikari, la madre biologica di Asato, che riappare improvvisamente nella loro vita.

Satoko, una donna non più giovanissima, vive in un grattacielo di Tokyo e lavora in una grande azienda insieme al marito Kiyo Kazu. Sono una coppia affiatata che, dopo diversi tentativi di procreazione medicalmente assistita non andati a buon fine – l’uomo è sterile -, decide di adottare un bambino, aprendo così un nuovo capitolo nella loro vita.

La vicenda di Hikari, invece, si svolge in un Giappone rurale, lontano dal mondo sofisticato di Tokyo. Hikari è una bella ragazzina di 14 anni che si trova alle prese con il suo primo amore. Quando scopre di essere incinta, la sua vita cambia radicalmente. Senza l’appoggio della sua famiglia, è costretta a terminare la gravidanza e ad affrontare il parto in un luogo lontano, Baby Baton, dove nessuno la conosce.

Baby Baton è un’organizzazione che agisce come intermediario, garantendo che il processo di adozione si svolga in modo legale e il più possibile rispettoso delle esigenze e dei sentimenti di tutte le persone coinvolte. Mette in contatto madri biologiche, che per vari motivi non possono crescere i loro figli, con coppie desiderose di adottare. Accoglie le ragazze gravide e le assiste fino al parto e all’adozione, in un luogo quasi segreto, lontano dagli occhi indiscreti della società. Questo isolamento non è casuale; simboleggia il silenzio e l’invisibilità a cui sono spesso costrette le donne che si trovano a fare scelte difficili come quella di dare in adozione il proprio figlio.

Per Hikari, Baby Baton rappresenta un rifugio ma anche un luogo di esilio. È un posto dove la sua gravidanza e la conseguente decisione di dare il figlio in adozione possono avvenire lontano dal giudizio sociale. Nonostante l’apparente modernità e l’efficienza del processo di adozione, la necessità di mantenere segrete queste storie personali rivela una profonda reticenza della società ad accettare e sostenere pienamente le madri nubili.

Dal mio punto di vista di adottata, il film offre una rappresentazione complessa e realistica delle dinamiche emotive e psicologiche che si sviluppano intorno all’adozione. “True Mothers” riesce a catturare l’ambiguità e la tensione che spesso caratterizzano la vita di un adottato, specialmente quando le sue origini biologiche riemergono.

Il personaggio di Asato, non al centro della narrazione, rappresenta le voci degli adottati spesso sommerse dalle narrazioni dominanti delle famiglie adottive. Purtroppo, la storia manca di un focus diretto sull’esperienza e sulle emozioni del bambino, che rimane una figura passiva nel racconto. Questo riflette un problema comune nella fiction e nella vita reale, dove il punto di vista dell’adottato è spesso trascurato o marginalizzato. D’altra parte, Asato è in età prescolare, è dunque un bambino piccolo, e la storia si concentra in parte sul suo inserimento nella famiglia adottiva e sugli eventi che seguono quando la sua mamma biologica, Hikari, riappare nella vita della famiglia.

Il film pone una domanda cruciale: chi è veramente la “vera madre”? La risposta, tutt’altro che semplice, viene esplorata attraverso il dolore, l’amore e la perdita che entrambe le donne vivono.

Come madre adottiva, sono rimasta piacevolmente sorpresa del fatto che “True Mothers” racconta una storia di adozione in modo molto delicato, soffermandosi sulla consapevolezza dei genitori adottivi di aver ricevuto un dono immenso. Questo riconoscimento è accompagnato dall’assenza di giudizio verso la madre biologica, in questo caso una ragazza adolescente non supportata dalla famiglia. Il film evidenzia la naturalezza dell’incontro tra le tre “parti”: i genitori adottivi, la mamma biologica e il bambino, mostrando come queste relazioni possano evolvere in modo armonioso e rispettoso.

Il tutto si svolge secondo quella modalità tipica della cultura giapponese, che gestisce le relazioni interpersonali con un profondo senso di rispetto, equilibrio e armonia. Questa rappresentazione non solo offre una visione sensibile e umana del tema, ma invita anche a riflettere su come altre culture affrontino questioni complesse con buonsenso e umanità.

Uno degli aspetti più potenti di “True Mothers” è proprio la rappresentazione del rapporto tra la madre biologica e quella adottiva. Il film riesce a tessere un dialogo profondo e delicato tra due donne che, pur partendo da posizioni apparentemente opposte, finiscono per trovare un terreno comune fatto di comprensione e rispetto reciproco. Questa capacità di entrare nei panni l’una dell’altra, di riconoscere il dolore, l’amore e le speranze che entrambe nutrono per il bambino, è qualcosa di raro e prezioso. Un altro aspetto rilevante è la capacità di rappresentare la lotta interiore, la sofferenza e l’isolamento emotivo che Hikari, la madre biologica, sperimenta dopo aver dato il figlio in adozione.

In Italia, questo tipo di dialogo è spesso ostacolato da sentimenti di competizione e di protezione, nonché dal senso di proprietà che alcune famiglie adottive sviluppano nei confronti dei figli. Si tende a mettere in primo piano il “possesso” del figlio, e il desiderio di “difenderlo” da una presunta minaccia rappresentata dai genitori biologici, che vengono percepiti come rivali piuttosto che come parte di una complessa rete di relazioni che compongono l’identità del bambino. In tempi recenti si comincia a parlare di adozione aperta, ma mi chiedo se siamo davvero pronti. Sarà necessario intraprendere un profondo lavoro culturale e, soprattutto, potenziare adeguatamente i servizi territoriali, che già faticano nel supportare il post-adozione, per essere in grado di gestire efficacemente questa nuova modalità di adozione.

Il film di Kawase, al contrario, ci mostra come l’apertura alla storia dell’altro, alla sofferenza e alla gioia dell’altro, possa creare un senso di comunità e di comprensione che supera la mera logica del possesso. Non è una competizione su chi è “più madre”, ma una riflessione su cosa significa essere genitori, e su come questo ruolo possa essere condiviso, non in termini di titolarità, ma di affetto e responsabilità.

Questa rappresentazione è profondamente toccante perché invita a rivedere le dinamiche di adozione non come una linea di separazione tra due mondi, ma come un ponte che può unire, anche se non sempre senza difficoltà. In questo senso, “True Mothers” non solo racconta una storia universale, ma offre anche uno spunto importante per riflettere su come possiamo migliorare la cultura dell’adozione in Italia, promuovendo il dialogo e la comprensione reciproca tra tutti i soggetti coinvolti.

L’adozione è per molti adottati un percorso intricato di identità e appartenenza, e “True Mothers” ha comunque il pregio di riuscire a evidenziare come il legame biologico e quello affettivo possano coesistere, anche se in modi complessi e talvolta conflittuali. Sarebbe stato significativo vedere una maggiore esplorazione delle emozioni di Asato stesso, un personaggio che rappresenta migliaia di bambini adottati nel mondo reale.

In conclusione, “True Mothers” è un film toccante e profondo che offre uno sguardo sensibile sul tema dell’adozione, ma lascia un po’ l’amaro in bocca per la mancanza di una voce autentica e centrale dell’adottato, i cui bisogni emotivi restano ai margini di una storia che, in fondo, è anche la sua.

Lascia un commento