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Leggi tutto: Riforma della legge 184: si parla di adozione, ma senza gli adottatiL’ho ascoltata per ben due volte.
In silenzio. Con attenzione. Incredula.
Temevo mi fosse sfuggito qualcosa.
Fino all’ultimo ho sperato che, da qualche parte, finalmente, si levasse la voce di una persona adottata.
E invece no.
Si è parlato di adozione senza gli adottati.
Ancora una volta.
Le parlamentari promotrici l’hanno detto chiaramente:
“Quello che proponiamo oggi è una goccia nell’oceano di norme da rivedere, snellire, semplificare. È un seme, un modo per iniziare a parlare di un argomento. Ci siamo concentrate su alcuni punti, forse ce n’erano altri più importanti, ma di difficile soluzione.”
Hanno ammesso che è solo un inizio.
E ammettere che c’è molto da fare è un primo passo utile e necessario.
Ma perché iniziare senza di noi?
Senza nemmeno una voce adottiva al tavolo di lavoro. Né un invito. Né un cenno alla nostra esistenza.
La proposta di legge affronta temi pratici: uniformità dei percorsi, tempi più rapidi, codice fiscale provvisorio, maggiore trasparenza, un minimo di postadozione.
Ma tutto è raccontato dal punto di vista degli adulti: chi adotta, chi gestisce, chi decide.
E noi?
Si è parlato del calo delle adozioni come di un problema da risolvere, senza chiedersi cosa lo abbia causato, e cosa sentano e pensino le persone adottate oggi, gli adulti adottati – che sono tanti.
Si è usato il solito linguaggio romantico e salvifico: “bambini negli istituti, che aspettano ogni sera qualcuno che li venga a prendere”.
Si è accennato anche al parto in anonimato, alla possibilità di accedere al fascicolo medico del genitore biologico, senza dati identificativi.
È un segnale positivo. Ma a noi adottati non basta. La verità biologica non è solo medica. C’è anche un bisogno identitario.
Si è discusso di semplificazione burocratica, di riduzione dei tempi di attesa, dei termini massimi per le relazioni e per i decreti. Ma non di verità, identità, diritto alle origini.
L’adozione non è solo un iter da snellire. È una condizione umana, profonda, permanente.
Si è parlato con entusiasmo del ruolo del terzo settore, elogiando le associazioni di genitori adottivi che “farebbero rete” con i servizi territoriali.
Non mi risulta. La realtà che ascoltiamo ogni giorno – anche nei nostri gruppi di supporto Punto.Adozione – è ben diversa: tante famiglie sole, genitori sovraccarichi, figli smarriti, servizi in affanno, reti a maglie larghissime.
Si è parlato di single discriminati. Ma l’adozione non dovrebbe essere centrata sui bisogni dei bambini?
Questo è un concetto ripetuto spesso, quasi sempre in modo retorico. Poi, però, si torna a guardare alle aspirazioni degli adulti. Tanto – si dice – ci sono le tate, le nonne.
Ma non basta che qualcuno sia semplicemente “disponibile” a subentrare. Un figlio adottato non è un bambino qualsiasi. L’adozione richiede cura profonda, continuità affettiva, adulti – uno o più – capaci di reggere il dolore.
Si è detto che la CAI deve coltivare relazioni con i Paesi di origine per dimostrare che l’Italia è accogliente.
Ma accogliente per chi?
Per chi affida i bambini… o per quei bambini che arrivano qui e faticano a trovare spazi dove la loro voce sia davvero ascoltata? Detta così, questa idea di accoglienza suona come una mossa diplomatica per ottenere fiducia.
Anche il postadozione è stato nominato. Ma ancora una volta, solo come supporto alle coppie, mai come diritto degli adottati a essere seguiti, compresi, accompagnati nella loro complessità identitaria.
L’adozione non è solo una procedura da semplificare.
È una condizione permanente.
È un’esperienza che cambia la vita.
Non si può trattare come un problema burocratico da risolvere. Nemmeno per iniziare.
Se questo è un seme, allora va piantato nel posto giusto.
E il posto giusto è un terreno che accoglie anche la voce degli adottati.
Non per gentile concessione, ma per giustizia.
Se continuiamo a parlare di adozione solo in termini di numeri, iter, coppie, enti e diplomazie, continueremo a ignorare l’essenziale:
che chi viene adottato non è oggetto dell’adozione, ma soggetto, che l’adozione si vive, si elabora, si porta addosso per sempre,
che non si può fare riforma vera senza ascoltare chi ci è passato.
Perché non c’è vera riforma se chi ne è protagonista non è nemmeno presente nella stanza.