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“Ma chi diavolo ho adottato?”

Riflessione di un’adottante-adottata su come affrontare una genitorialità adottiva difficile

Tempo di lettura: 4 minuti

  • Confrontarsi con una realtà inattesa
  • La paura dell’adolescenza
  • Perché assecondare non risolve
  • Il vero bisogno dei figli adottivi
  • Il valore dell’accettazione
  • Accettare senza plasmare
  • Accogliere la cultura d’origine
  • Essere una guida autorevole
  • Il rispetto del processo emotivo
  • L’amore arriva con il tempo
  • Oltre l’amore incondizionato
  • L’illusione dell’adozione
  • Accettare il distacco
  • L’automutuoaiuto AMA come risorsa fondamentale
  • La genitorialità adottiva: un impegno continuo

Come adottata, riconosco che affrontare le difficoltà con un figlio adottivo non è mai semplice. Spesso sento storie di genitori sfiancati, alle prese con figli ingestibili e distruttivi: incapaci di accettare limiti e frustrazioni, manifestano comportamenti dispotici e minano continuamente la relazione. Questi atteggiamenti possono emergere fin da subito dopo l’adozione, o svilupparsi durante l’adolescenza, trascinando le difficoltà fino all’età adulta. Bambini, ragazzi e giovani adulti che insegnanti e operatori sociali non riescono a gestire, lasciano i genitori con la preoccupazione che possano sviluppare tendenze antisociali e non essere in grado di affrontare un mondo che non farà certo loro gli sconti che ricevono in famiglia.

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Confrontarsi con una realtà inattesa
Ho vissuto personalmente lo “stupore” del genitore adottivo di fronte a una realtà molto diversa da quella immaginata, e so quanto sia comune. Nonostante i corsi preadottivi preparino sui concetti teorici e pratici, l’incontro con la realtà può essere sconvolgente. Spesso si entra nell’adozione con l’idea che amore e pazienza risolveranno tutto, ma quando ci si trova di fronte a un figlio con comportamenti difficili o distanti, l’incredulità prende il sopravvento e sorge una domanda legittima: “Ma chi diavolo ho adottato?”.

Bisogna comprendere che il bambino non è una tabula rasa, ma una persona con una storia complessa, traumi ed emozioni proprie, e nulla può realmente preparare a ciò che comporta gestire queste sfide quotidiane. Come genitore adottivo, ho affrontato situazioni estremamente difficili, a volte al limite del surreale. Mia figlia, oppositiva-provocatoria fin da subito, disegnava i componenti della nostra famiglia come un gruppo di zombie, un segnale chiaro del suo disagio emotivo. In altri momenti, invece, rappresentava la nostra casa piena di cuori e sorrisi, riflettendo la sua ambivalenza e confusione. Questa alternanza di emozioni mi ha fatto capire quanto sia lunga e complessa la strada per costruire un vero legame di fiducia con un figlio adottivo.

La paura dell’adolescenza
Capisco bene quei genitori che si sentono spaventati e sopraffatti, temendo che con l’adolescenza la situazione possa peggiorare, con comportamenti ancora più ribelli e persino violenti, come a volte riportato dalle cronache. La stanchezza e il senso di impotenza li rendono vulnerabili, e li portano a cercare aiuto da sedicenti esperti – come è capitato anche a me – che suggeriscono di “allearsi” con i figli, assecondandoli quanto più possibile, anche attraverso concessioni materiali. L’idea proposta è quella di concentrarsi su poche cose, limitare i rimproveri, ridurre i divieti e far sentire al figlio che il genitore è “dalla sua parte”. Un’impresa che sembra impossibile nelle tante giornate piene di infinite provocazioni.

Perché assecondare non risolve
Una relazione basata sull’assecondare sistematicamente le richieste, anche se non irragionevoli e solo per qualche anno, rischia di creare dinamiche disfunzionali difficili da invertire. Invece di rimandare l’introduzione di un ruolo normativo e contenitivo, ho trovato utile bilanciare subito l’empatia e l’ascolto con l’implementazione di confini chiari. È vero che la disponibilità del figlio all’ascolto può essere molto limitata, ma bisogna cogliere quei momenti di apertura e sfruttarli al meglio. Se il figlio non è immediatamente disponibile al dialogo e nemmeno fornisce appigli, mantenere una presenza costante può, col tempo, aprire la porta alla comunicazione. In pratica, bisogna essere ancora più tenaci del piccolo o grande despota. Per semplificare si potrebbe dire: “chi la dura la vince”. Un figlio adottivo ha bisogno di tempo per riconoscere che il genitore non è una figura transitoria, ma una presenza permanente che agisce nel suo interesse. Con mia figlia, andando contro il mio desiderio di mollare e il suo desiderio che io mollassi, ripetevo invece: “mi dispiace, ma io non ho ancora finito con te”.

Il vero bisogno dei figli adottivi
Da figlia adottata e confrontandomi con altri adottati, posso dire che la prospettiva del “ti concedo quello che vuoi” è ben lontana dalla nostra realtà. La parte economica, vedere soddisfatti i desideri materiali – dai giocattoli e divertimenti immeritati, ai vestiti firmati e al cellulare all’ultimo grido, sperando che tutto ciò compensi le difficoltà relazionali – non ci interessa quasi per nulla, anzi a volte di tutta questa sovrabbondanza non sappiamo proprio che farcene.

Quello che desideriamo profondamente è essere ascoltati e compresi nelle nostre fatiche. Più di tutto, vorremmo genitori solidi, ma anche duttili, che sappiano entrare nel nostro vissuto senza pregiudizi e restare accanto a noi non solo nell’infanzia, ma anche nell’adolescenza e nell’età adulta. Non cerchiamo eroi, ma adulti che continuino a dimostrare quella capacità di adattamento e rimodulazione di sé già dimostrata nel momento in cui hanno scelto di diventare i nostri genitori e sono venuti a conoscerci.

Il valore dell’accettazione

Noi adottati adulti, anche in età avanzata, ci sentiamo dire a volte dai “diversamente adottati”: “Ma come, alla tua età ormai dovresti averla superata”. Purtroppo, invece, i tempi per elaborare la propria storia adottiva possono estendersi molto, spesso durano una vita intera, e i genitori, parenti e conoscenti devono farsi una ragione di questa realtà.

I genitori adottivi tendono a concentrarsi sull’idea di “risolvere” ciò che percepiscono come un problema comportamentale, cercando di costruire una “normalità” che escluda dolore e tristezza. Tuttavia, non c’è nulla da risolvere o riparare in un figlio adottivo, ma piuttosto delle ferite emotive da lenire nel tempo. L’errore di partenza è aspettarsi che un bambino con un trascorso complesso si adatti, dopo un “congruo” periodo, al modello di famiglia che ci siamo prefigurati. Forzare un bambino ad amare degli estranei, cercare di resettarlo è un grande errore.

Ciò che conta invece è integrare due storie, due vissuti e, soprattutto, due bisogni: quelli del figlio e quelli della coppia. Il figlio non deve colmare un vuoto legato all’infertilità, né il suo compito è soddisfare un bisogno dei genitori. La vera differenza sta nell’accettare la particolarità della condizione adottiva, comprendendo che essa ha contribuito a forgiare la personalità del figlio. Posso dire di avere imparato nel tempo che il segreto di una relazione sana e duratura con un figlio adottivo risiede proprio in questa capacità di accettazione.

Accettare senza plasmare
L’idea che il bambino o l’adolescente debba adattarsi a un modello di famiglia “normale” o “perfetta” è una forzatura, spesso inconsapevolmente imposta dai genitori stessi, magari nella convinzione che ciò renderà la vita del figlio più facile. Accettare significa riconoscere che il figlio adottivo è diverso da un figlio biologico, che la sua storia è unica e non può essere ignorata o cancellata per fare spazio a un nuovo inizio. Riconoscere questa differenza significa accettare che il figlio adottivo ha una parte di storia che non appartiene alla famiglia adottiva. L’adattamento che gli si richiede è enorme, e gli anniversari critici come il compleanno o il giorno dell’arrivo nella nuova famiglia devono essere affrontati con estrema delicatezza.

Accogliere la cultura d’origine
Un aspetto spesso trascurato è l’accoglienza della cultura e delle tradizioni d’origine del figlio adottivo. È sorprendente quanto le culture di altri popoli vengano viste con interesse quando si tratta di fare una vacanza o un tour turistico, ma quando torniamo a casa, diventano “culture di serie B”. Eppure, per un figlio adottivo, le radici sono parte integrante della sua identità e non possono essere ignorate o ridotte a un dettaglio secondario. Una famiglia che si mostra curiosa e desiderosa di conoscere e apprendere anche la cultura del figlio dimostra un profondo rispetto.

Questa integrazione culturale permette al figlio di sentirsi accolto nella sua interezza e va oltre: implica anche valorizzare gli aspetti positivi e le eccellenze del Paese d’origine. Riporto un piccolo esempio personale: mia nonna, quando ero piccola, mi raccontava – pur con qualche imprecisione geografica – che ero nata nel Paese con la montagna più alta del mondo. In mezzo alle immagini negative di miseria e ingiustizia che spesso si associavano all’India, per anni è stato per me un motivo di orgoglio, anche dopo aver scoperto che l’Everest non si trova in India.

Essere una guida autorevole
Nella mia esperienza con una figlia “difficile”, ho compreso quanto questa situazione, sebbene dura e protratta nel tempo, mi abbia arricchita profondamente a livello umano. Certo, avrei preferito evitare alcune delle grandi fatiche e vivere una vita più serena. Tuttavia, oggi mi sento una persona più completa, sia come individuo che come persona con una storia adottiva. Ripensando al passato, riconosco la bontà dell’impostazione educativa che i miei genitori mi hanno dato: presenza, coerenza e sicurezza. Sebbene il dialogo fosse un po’ carente, riflettendo lo stile dell’epoca in cui sono cresciuta, questi elementi, uniti a confini chiari, mi hanno sempre fatto percepire una cura autentica e una sincera preoccupazione per il mio benessere.

Il rispetto del processo emotivo
Bilanciare la protezione con il rispetto del processo emotivo è una strada lunga e faticosa, ma con mia figlia sembra aver funzionato. La genitorialità adottiva richiede di essere fermi nel proprio ruolo di guida, soprattutto quando il figlio rema contro. I figli hanno bisogno di figure autorevoli e sicure, non di amici o complici che cedano alle loro richieste. Il rispetto dei limiti non deve essere visto come una rinuncia al rapporto, ma come un mezzo per costruirne uno più sano, anche se ci vorranno anni perché ciò si realizzi.

È un percorso che richiede pazienza infinita e la capacità di non farsi abbattere dalle difficoltà quotidiane, per quanto dure esse siano. Stabilire confini non solo protegge, ma invia un messaggio chiaro di rispetto e cura: “Ti voglio abbastanza bene da stabilire cosa è sicuro per te.”

Questi limiti sono fondamentali anche quando il figlio non li accetta subito o si ribella con veemenza. È essenziale che il figlio possa contare su una struttura solida e prevedibile. Questo non significa essere rigidi o autoritari, ma stabilire aspettative chiare che proteggano entrambi: il figlio da se stesso e i genitori dal caos.

Certo, si potrebbe obiettare che lo stesso principio valga per crescere un figlio biologico. Tuttavia, ritengo che sia più complesso nel caso di un figlio adottivo, perché il rapporto di fiducia e il senso di sicurezza non possono contare su quell’affinità biologica naturale e vanno costruiti con pazienza e determinazione.

L’amore arriva con il tempo
L’idea che l’amore possa crescere gradualmente è, a mio avviso, la più realistica. Non si può forzare un legame emotivo né pretendere risultati nel breve tempo, soprattutto in una situazione così complessa. I figli adottivi, a causa del loro passato, possono sviluppare diffidenza o difficoltà a costruire legami emotivi, e non sapere affatto cosa significhi essere figli o avere una mamma e un papà. È naturale che fatichino a riconoscere subito il genitore come figura di riferimento, ma col tempo, attraverso la coerenza delle azioni e la presenza costante, può svilupparsi un legame di fiducia e affetto.

I genitori non dovrebbero preoccuparsi primariamente di ottenere amore, ma piuttosto di guadagnarsi il rispetto e la stima dei propri figli come persone. Questo riconoscimento emergerà in modo naturale quando i figli saranno più maturi e consapevoli, e sarà il vero indicatore di un legame affettivo autentico e profondo.

Oltre l’amore incondizionato
Il fine dell’adozione non dovrebbe essere quello di ottenere l’amore incondizionato dei figli. Questa è un’aspettativa che troppo spesso nasce dalla debolezza dei genitori di quest’epoca, figli di una generazione spesso anaffettiva e desiderosi di colmare i propri vuoti emotivi. Si cerca un figlio che ami, che risponda ai bisogni emotivi degli adulti, ma questo è un errore di prospettiva. Forse, per comprendere meglio, le domande che ogni genitore dovrebbe porsi sono: “Ma io ho amato i miei genitori?” e “È un dovere amare i propri genitori?”.

Aspettarsi che un figlio adottivo s’innamori all’istante dei genitori e li ami incondizionatamente può essere pretenzioso. L’amore non si estorce con i beni materiali e non può essere imposto, ma nasce dalla connessione emotiva e dalla sicurezza che i genitori sono in grado di offrire. È importante che i genitori siano presenti, costanti e capaci di accettare il figlio per chi è, senza aspettative rigide. Con il tempo, se si crea una base solida di fiducia e comprensione, l’amore può emergere in modo naturale. I figli non dovrebbero sentirsi in debito di amare i propri genitori, ma piuttosto dovrebbero essere liberi di sviluppare questo sentimento nel tempo, se la relazione favorisce il loro benessere e la sicurezza emotiva.

L’illusione dell’adozione
A volte mi chiedo se non sia più onesta la kafala rispetto all’adozione. La kafala, un istituto giuridico in alcuni paesi musulmani, non illude né i genitori né i figli di essere diventati una famiglia nel senso biologico del termine. L’adozione, al contrario, tende a creare un’illusione pericolosa: quella di avere un figlio “naturale” e di costituire, finalmente, una famiglia che colmi ogni vuoto, soprattutto quello dell’infertilità. Non a caso alcuni genitori adottivi descrivono l’attesa come una gravidanza e l’incontro come un parto. Ma per i figli adottivi, la realtà è spesso diversa. Non cercano una famiglia che li accolga solo se pronti a adattarsi e diventare “come tutti gli altri”, ma una famiglia che li rispetti e li ami per ciò che sono, con tutte le loro complessità e diversità.

Accettare il distacco
Nel mio percorso come genitore adottivo, ho imparato che ci vuole una pazienza infinita, quasi biblica, per accompagnare un figlio nel suo percorso di crescita. È fisiologico che ogni figlio, soprattutto durante l’adolescenza, si allontani, emotivamente o fisicamente, alla ricerca del proprio posto nel mondo. Nel caso del figlio adottivo, la questione è più complessa: non si tratta solo di affrancarsi dal controllo genitoriale, ma anche di trovare il proprio posto in famiglia attraverso la riscoperta delle proprie origini, decostruendo per poi ricostruire la propria identità.

In questi casi, i genitori devono accettare l’idea che il loro compito non sia trattenere o forzare il legame cercando la vicinanza e continuando a proteggerli come eterni bambini bisognosi, ma aspettare e supportare in questa fase molto delicata. Purtroppo, si è creato un nuovo archetipo, quello dell’adottato fragile, che resta un eterno figlio, forse per soddisfare il desiderio di genitorialità di chi non ha elaborato il lutto dell’infertilità. A volte, nei casi più difficili, prendersi una pausa dal figlio, allontanarsi o allontanarlo, diventa una decisione necessaria e, per quanto dolorosa, può rappresentare una fase importante per un ritorno consapevole in famiglia e per la costruzione di un’identità familiare più solida.

L’automutuoaiuto AMA come risorsa fondamentale
Un elemento cruciale per i genitori adottivi è il supporto esterno. A questo proposito, invito tutti i genitori adottivi, così come gli adottati adulti, a partecipare ai gruppi di automutuoaiuto che facilito insieme a PuntoAdozione e all’Associazione AMA Milano Monza Brianza. Coordino tre gruppi distinti: per adottati adulti, per genitori adottivi in generale e per genitori che affrontano grandi sfide.

In questi gruppi possiamo discutere apertamente di tematiche che vanno dalle difficoltà quotidiane alle questioni più profonde legate all’identità, alla famiglia e alla gestione delle relazioni. Questi spazi gratuiti di condivisione tra pari offrono la possibilità di sentirsi ascoltati e supportati da una rete di persone con esperienze simili, aiutando a far emergere nuove strategie e prospettive per affrontare le difficoltà. Molti genitori trovano in questi spazi un luogo sicuro dove narrare le loro esperienze, dubbi e paure, ottenendo conforto e nuove prospettive da persone che stanno affrontando sfide simili. A loro volta, la loro esperienza può essere utile agli altri, trasformandosi in una risorsa preziosa.

La genitorialità adottiva: un impegno continuo
La genitorialità adottiva richiede molte qualità difficili da avere in partenza, ma non impossibili da sviluppare, soprattutto quando lo facciamo per chi amiamo: essere risolti interiormente, coraggio, costanza, solidità, duttilità e, soprattutto, capacità di accettazione. Non esistono scorciatoie o soluzioni immediate. Bisogna essere pronti da subito a instaurare una relazione profonda e rispettosa con il figlio, per costruire un legame capace di resistere alle difficoltà e alle fatiche più dure, nel rispetto delle storie e dei vissuti di entrambi.

Avvertenza: Le opinioni e i punti di vista espressi negli articoli presenti su questo sito riflettono esclusivamente il pensiero dell’autrice, Alessandra Pritie Maria Barzaghi. Tutti i contenuti sono pensati per offrire spunti di riflessione utili e interessanti, e momenti di approfondimento su tematiche adottive, e non hanno finalità di consulenza psicologica, medica o legale. La riproduzione dei materiali presenti in questo sito è consentita solo previa autorizzazione scritta dell’autrice.

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