La mia storia

1969

1971

2006

La grande avventura

 

La mia prima grande avventura inizia in India nel settembre 1969, quando, a due anni di età, lascio l’orfanotrofio di Pune insieme a una turista genovese.

 

Un lungo viaggio

 

Dopo un viaggio di tre giorni e uno scalo aereo a Bangkok, raggiungo i miei nuovi genitori. Mamma e papà Barzaghi, brianzoli, possono stringermi a sé dopo un iter adottivo durato tre mesi dal primo contatto con il CIAI.

 

L’articolo sul giornale

 

Uno dei primi casi di adozione internazionale, la mia foto finisce a pagina sei del quotidiano Il Secolo XIX. Un articolo commovente e piuttosto dettagliato viene dedicato alla storia di una famiglia italiana che ha deciso di adottare un bimbo straniero. Si parla di selezioni severissime: una domanda su trenta viene accettata, l’attesa è di pochi mesi e il costo per le pratiche dall’India è di 200.000 lire.

 

Nella mia nuova famiglia

 

Giorno di nascita incerto, ricevo anche un nome italiano: Alessandra. Dormo per quarantotto ore di fila, preferendo il tappeto al letto, e con grande disappunto del bimbo biondissimo già presente in famiglia per adozione nazionale, che attendeva una sorellina per giocare. Il contrasto estetico tra noi due fratelli, nonché la mia fisionomia orientale, suscita di continuo la curiosità della gente, poco avvezza al concetto di adozione. Quattro anni dopo, la mia famiglia si ingrandisce con l’arrivo di un figlio naturale.

 

Everest

 

Ai miei genitori è subito chiaro quanto ami fare acrobazie, arrampicarmi sugli alberi e cantare. Perplessa, la mamma mi iscrive a una scuola di danza per rendermi più aggraziata. La nonna paterna, che è colta per la sua generazione e fa sfoggio di nozioni geografiche, mi parla dell’Himalaya, mi dice quanto io debba andare fiera di essere nata nel Paese che detiene il record della cima più alta del mondo. Sebbene la nonna si sbagli sull’ubicazione dell’Everest, che in realtà si trova al confine tra Nepal e Cina, quel particolare mi inorgoglisce, tanto da indurmi a studiare l’intero mappamondo. Adesso ho qualcosa di cui andare fiera del mondo da cui provengo, a dispetto di tante immagini di povertà con le quali l’India mi è sempre stata rappresentata. Di questa rassicurante rivelazione mi rimane il pallino delle cartine e la passione per i viaggi naturalistici.

 

Suor Mataji

 

Il primo contatto con la mia vita precedente avviene a sei anni quando la suora dell’istituto, Mataji Nirmala, viene a trovarmi a casa: ha programmato un giro per l’Europa, per assicurarsi che tutti i bambini adottati dall’orfanotrofio di Pune crescano bene nelle loro nuove famiglie. Suor Mataji è seduta in salotto, infagottata nell’abito religioso, e io la fisso imbarazzata e desiderosa di tornare ai miei giochi, al mio rassicurante tran-tran quotidiano. Nonostante la storia dell’Everest, rifiuto inconsciamente tutto quanto riguarda l’India, il Paese che ha vigliaccamente rinunciato a una sua figlia. Da quel giorno, Mataji Nirmala prende a scrivermi direttamente: ogni Natale, arriva un delizioso bigliettino in carta di riso decorato a mano, con frasi liturgiche e l’augurio di trovarmi felice e in salute. Quelle missive diventano un balsamo contro i momenti malinconici.

 

La vita va avanti

 

Abbraccio la mia nuova vita, studio, lavoro, viaggio e formo una famiglia con un figlio naturale. La maternità, essere biologicamente affine a qualcuno, è un qualcosa di molto gratificante.

 

Ritorno in India

 

Poco tempo dopo, arriva per me il momento di riavvicinarvi alle mie origini: a 37 anni di distanza dal momento in cui l’avevo lasciata, torno in India, nella terza avventura più emozionante della mia vita, per incontrare la mia bambina. Vederla finalmente dal vivo, dopo tre anni di attesa burocratica, materializzata dalla piccola fototessera fornita dall’ente per le adozioni, è un’esperienza indescrivibile.

 

Le ragazze madri

 

La zona del Kerala in cui sorge l’orfanotrofio gestito dalle suore è un paradiso naturale di palmeti e lagune. La struttura è un “compound” autosufficiente con una chiesa, l’infermeria, la tessitura, la fabbrica di caucciù e la casa delle ragazze madri. Quello stesso giorno, incontro un gruppo di donne che hanno dato i loro figli in adozione. Mi accolgono con calore e mi mostrano fiere le foto dei loro ragazzi che conducono vite soddisfacenti in Olanda e in Belgio: hanno rinunciato ai loro bambini per estrema povertà, e non per i motivi futili che spesso si attribuiscono a certi popoli. Conoscerle mi fa molto riflettere sul significato dell’adozione, sui pregiudizi del mondo Occidentale e sulle alternative possibili. Per certi versi, sento quasi di fare qualcosa di sbagliato: sono lì per strappare a un’altra donna la propria bambina.

 

Mia figlia

 

La bimba invece è sola.  È un piccolo motore perpetuo che mi darà del filo da torcere. Conoscere la mia terra d’origine è un’esperienza travolgente che riuscirò ad assimilare lentamente nel tempo.

 

Niente è cambiato

 

Mamma bis torno in Italia e, con grande rammarico, ritrovo nella fatica quotidiana di mia figlia, nel contesto scolastico e poi nella società, una serie di contraddizioni e situazioni irrisolte nel riconoscimento e nell’inclusione degli adottati, cosa che mi convince ad attivarmi per cambiare le cose.