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Il più bel secolo della mia vita

Se una persona non sa da dove viene, è incompleta.” “I figli sono di chi li cresce.” “L’amore sbaglia.

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Queste battute di dialogo contenute nel film “IL PIÙ BEL SECOLO DELLA MIA VITA” colpiscono chiunque abbia esperienza di adozione e rappresentano le profonde emozioni e le sfide che accompagnano questa realtà.

Una legge iniqua, soltanto italiana, segna il punto di partenza dell’incontro tra Giovanni e Gustavo, due “fratelli di culla” impossibilitati a conoscere l’identità dei genitori biologici. 

La pellicola punta il dito su questa legge, la cosiddetta “Legge dei 100 anni”, che nega alle persone non riconosciute alla nascita il diritto di conoscere le proprie origini prima del compimento dei 100 anni di età. Anche in caso di una ricerca anticipata (interpello), permessa dai 25 anni in su, il diritto all’oblio del genitore naturale può impedire l’accesso alle informazioni.

Le interpretazioni di Sergio Castellitto (Gustavo) e di Valerio Lundini (Giovanni) danno vita a personaggi complessi e autentici attraverso movenze e dialoghi ben costruiti e realistici.

Questa è una storia che parla di identità, radici, appartenenza, morte, vecchiaia e dell’attesa della morte, riuscendo abilmente a unire riflessioni sui significati più profondi della vita e delle esperienze umane con momenti di comicità e di ilarità. La scelta di affidare il suo messaggio prevalentemente alla commedia è sia un punto di forza, ma a mio avviso anche una limitazione, soprattutto verso l’apprezzamento della missione di Giovanni: cambiare una legge assurda facendo incontrare il centenario Gustavo con il ministro.

Tra tutti i presenti, Gustavo potrà essere il solo ad aprire il suo fascicolo personale. Per garantire che il nuovo disegno di legge sia preso seriamente in considerazione, è cruciale ottenere la testimonianza dell’unico centenario ancora vivo, che ignora l’identità della madre. Giovanni conta sulla testimonianza di Gustavo, ma il suo intento risulta un po’ oscurato dal personaggio di Gustavo incline alla burla e alla battuta. È facile simpatizzare con l’arzillo Gustavo, e di riflesso con il suo punto di vista inizialmente irriverente e noncurante.

Giovanni e Gustavo partono da Bassano del Grappa in un’avventura on the road verso Roma, caratterizzata da momenti divertenti, profondi e di pura verità. Gustavo non ha avuto il lusso di Giovanni di essere accolto e cresciuto da una famiglia adottiva. Senza un tetto sopra la testa, era costretto ad andare a dormire nelle celle delle carceri. Dovendo pensare a provvedere a se stesso, non ha potuto concedersi la possibilità di rimuginare sul passato. Quando infatti Giovanni gli domanda se non ha mai pensato alla sua madre naturale, Gustavo lo guarda sorpreso.

Gustavo e Giovanni, nonostante la loro notevole differenza di età, hanno in comune una storia di abbandono che purtroppo continua a perpetuarsi attraverso le generazioni. “Se una persona non sa da dove viene, è incompleta.” Questo tema doloroso viene affrontato con equilibrio, senza pietismi e senza risultare deprimente.

Giovanni, formale e impacciato, è ansioso di completare il compito che gli è stato assegnato ed è concentrato sul suo passato: da adulto, ha scoperto di essere stato adottato, e desideroso di conoscere la madre biologica, si è distanziato notevolmente dalla madre adottiva. Gustavo conserva il suo desiderio insaziabile di vivere, invece di morire giorno dopo giorno nella RSA: “C’è ancora tempo!” continua a scherzare. Guidato dal desiderio di approfittare a piene mani di qualche giorno di libertà, prima di essere riportato alla casa di riposo, diventa una spina nel fianco per l’integerrimo Giovanni e si fa beffe dei brodini e dell’austerità che le monache gli hanno imposto nell’infanzia e le suore nella vecchiaia. “Un purgatorio”, così descrive la sua ultima casa.

Perché vuoi che faccia queste cose?“, chiede Giovanni a Gustavo quando, con tono brusco, lo incita a chiedere il numero di telefono a una bella cameriera. “Perché io non posso più farle!“, risponde l’anziano con un velo di malinconia che, di tanto in tanto, traspare dai suoi occhi tra una battuta e l’altra.

Giovanni si ammorbidisce durante il viaggio: la sua crescita come personaggio è evidente, passando da un’irritante rigidità all’affetto e a una profonda comprensione per l’anziano. La tensione con la madre adottiva Gianna e la pista elettrica che occupa tutta la cucina di Giovanni – e che sollecita in Gustavo i ricordi di una grintosa giovinezza da pilota – sottolineano la sua immaturità nell’elaborazione della sua storia, un passaggio in cui verrà proprio aiutato da Gustavo che lo invita a fare pace con Gianna: “I figli sono di chi li cresce”, “L’amore sbaglia”.

Quando Giovanni accompagna Gustavo alla tomba della madre naturale, si rivela il lato più tenero e saggio dell’anziano, come nella scena in cui si porta alle labbra un fazzolettino con l’impronta di un rossetto. La tomba della donna è priva di fotografia. Sapendo che Gustavo attende quel momento per vedere il volto di sua madre, Giovanni decide di mettere sulla lapide la foto di un’altra defunta. Gustavo osserva la foto e saluta sua madre con serenità, l’ha finalmente perdonata.

Al termine del film, ci si potrebbe aspettare un ultimo simpatico guizzo di energia da parte di Gustavo, che ne ha combinate di tutti i colori durante il viaggio. Invece, il sipario si chiude con i due amici che lasciano il cimitero, diretti verso la casa di Gianna, con Gustavo che dice semplicemente: “Andiamo a mangiare, poi penseremo al resto”.

Mi sarebbe piaciuto vedere di nuovo Gustavo all’opera, mentre con la sua verve convince il ministro, magari regalandoci un ulteriore insegnamento che la vita gli ha donato nel suo inaspettato “penultimo viaggio”, prima di dire addio.

Aggiunge un ulteriore strato di significato la canzone “La vita com’è” di Brunori Sas che enfatizza le emozioni del film. Nel complesso, Il più bel secolo della mia vita è un’esperienza cinematografica che merita di essere vista, con interpretazioni brillanti e un messaggio potente e toccante.

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