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La mia nascita è stata accompagnata da un mistero.
Un mistero che non capita a tutti: quello di non sapere chi sono i propri genitori naturali.
Quando ho deciso di adottare, non ho pensato che avrei aggiunto un altro mistero alla mia vita.
Chi sono i genitori naturali di mia figlia?
Leggi tutto: Il Mistero dell’Adozione: Uno Specchio tra Madre e FigliaIeri, per la prima volta, abbiamo aperto insieme i suoi documenti dell’adozione. Lei voleva cercare indizi, vedere con i propri occhi se ci fosse qualcosa. Qualsiasi dettaglio che potesse raccontarle di più sulla sua storia.
Io sapevo già che non c’era nulla. Ma era importante per lei accertarsene da sola.
Mentre sfogliavamo quelle poche pagine, mi sono resa conto che quel vuoto era lo stesso che ho incontrato più volte nella mia vita, quando ho cercato di sapere qualcosa sulle mie origini.
Quel mistero, adesso, non riguardava più solo me. Ma anche lei.
Mi ha guardata e ha chiesto:
“Perché non abbiamo potuto vivere con i nostri genitori naturali?”
Come si spiega un mistero così grande, quando tu stessa sei nata dentro quello stesso enigma?
Ci ho provato. Le ho detto che sì, essere adottati fa schifo, perché significa aver perso qualcosa di importante. Ma quando una donna non può crescere suo figlio, o quando un bambino è orfano, è necessaria.
Ha sospirato. Poi ha detto:
“Lei si è arresa subito, abbandonandomi.”
Le ho proposto di cambiare parola, perché le parole sono importanti.
Non si è arresa. Si è resa conto di non farcela da sola. E quando succede, allora si lascia andare.
Le ho parlato delle condizioni delle madri nubili in India, del peso della cultura, della miseria più nera, dello stigma sociale.
Scorrendo quei pochi fogli, abbiamo trovato il nome di un ospedale.
“Perlomeno ti ha partorita in sicurezza.” le ho detto. “Non sei nata nello squallore.”
Questa cosa è sembrata attenuare la sua angoscia. Ha annuito.
“Almeno mi ha dato la vita. Avrebbe potuto abortire. So che devo imparare ad accettarlo, l’abbandono.”
Mia figlia sta lentamente facendo dei passi avanti. Solo ieri non voleva nemmeno parlarne. Se accennavo all’argomento, mi rispondeva:
“Se la incontrassi, le sputerei in faccia.”
Abbiamo poi letto insieme il diario che ho scritto sui suoi primi giorni con noi. Un dono che ho voluto farle anni fa, per darle un po’ di storia dove storia non ce n’era.
Dentro quelle pagine c’era una bambina vivacissima, attenta, intuitiva.
Mi ha guardata e ha chiesto:
“E poi? Perché ho perso quelle qualità? Perché invece di andare avanti, ho rallentato?”
Domanda difficile.
Le ho spiegato che i primi mesi erano una novità: noi, la nuova casa, una vita diversa.
Poi, probabilmente, è arrivato il dolore.
Il dolore di essere stata strappata dal luogo che conosceva, dagli affetti che aveva, dalle sue abitudini.
Là era libera di andare e girare nel compound dell’istituto.
Qui, invece, ci sono le regole di un mondo fin troppo strutturato per i bambini.
“E poi?” ha insistito.
“E poi nessuno ti aveva insegnato ad ascoltare, perché nessuno davvero ti ascoltava. Questo, per molto tempo, ti ha segnato.”
A volte la verità fa male.
Ma fa più male non dirla.
Le ho detto che non è mai stata colpa sua.
Quel dolore esiste e sempre esisterà.
Ma se gli lasci prendere tutto lo spazio nella tua mente, diventa un freno al futuro.
Mi ha guardata a lungo. Poi ha detto:
“Mi ha fatto bene parlare con te. Penserò a quello che ci siamo dette. Voglio provare a dare a quel dolore solo un piccolo spazio nella mia mente, uno spazio che potrò visitare quando vorrò. Ma non posso lasciargli occupare tutto. Adesso so che io posso scegliere.”
Ho annuito. In silenzio.
Scegliere: A volte è l’unica cosa che possiamo fare.
Prima di pubblicare questo post, ho chiesto a mia figlia se fosse d’accordo. Ha detto di sì, perché vuole che la sua esperienza possa essere di aiuto ad altri.