Tempo di lettura: 3 minuti
Io, da figlia adottiva, non ho mai pensato: “Voglio un figlio mio.”
La gravidanza mi sembrava qualcosa di distante, quasi contro natura per me.
Pensavo all’adozione. Mi sembrava più coerente con la mia storia.
Non c’era in me il desiderio di “trasmettere i miei geni”, perché i geni, nella mia esperienza, non sono mai stati un rifugio sicuro, un’origine da cui partire.
Il legame biologico, per me, è stato soprattutto una ferita.
L’idea di fare un figlio mi sembrava estranea, persino disturbante.
Allo stesso tempo, mi rendevo conto che questo avrebbe potuto sembrare un pensiero folle, se lo avessi espresso.
Poi ho capito che non era questione di non essere capace di amare qualcuno che emanava da me, ma che avevo imparato ad associare il legame biologico alla rottura, alla perdita, alla ferita.
Per alcuni adottati, il corpo non è “casa”, non è “origine”, ma luogo del distacco.
E allora l’idea di generare attraverso il corpo, di avere un figlio “proprio” nel senso biologico, può apparire quasi controintuitiva, contro natura.
Come se fosse una ripetizione dolorosa di qualcosa che non è mai stato pienamente compreso o integrato.
Non tutti gli adottati hanno questi sentimenti.
Per molti, avere un figlio biologico significa potersi rispecchiare finalmente nella somiglianza.
E questo l’ho scoperto anch’io, una volta nato mio figlio.
È stato allora che ho capito che non serve averlo desiderato prima, per amarlo profondamente dopo.
Da quel momento si è aperta una meraviglia, e non ho mai smesso di stupirmi di quel dono: il dono di generare la vita.
Che io abbia pensato all’adozione prima ancora che alla gravidanza me lo sono spiegato come una forma di coerenza interna, forse anche di desiderio di riparazione:
“So cosa vuol dire essere adottati. So cosa manca. Posso essere casa per qualcuno come me.”
E forse, senza accorgermene, questa è stata anche una risposta silenziosa a chi — nel tempo — mi ha chiesto:
“Ma perché hai adottato, proprio tu che sei stata adottata?”
Perché loro non lo farebbero mai.
Alcuni perché non sono adottati e non comprendono fino in fondo.
Altri perché lo sono, e pensano che significhi ripetere il dolore.
Per me, invece, è stato un gesto che veniva da dentro.
Non per rifare la stessa storia, ma per riscoprirne un’altra, insieme.
Ci sono state madri con una storia adottiva che mi hanno raccontato di non aver sentito un legame viscerale con la figlia durante la gravidanza.
Che per loro la maternità si è costruita con il tempo, nella relazione, e non nel corpo.
Che persino con la propria madre biologica, che alcune hanno ritrovato, non sentivano alcun legame.
Un pensiero espresso con lucidità, e forse — lo dico con rispetto — anche con una certa necessità di distacco.
Mi ha colpito. Perché anche questa è una forma di protezione.
Quando il legame biologico ti ha fatto male, forse l’unico modo per sopravvivere è dire che il corpo non conta, che il sangue non parla.
E invece il corpo, a volte, ricorda tutto.
Anche quello che la mente cerca di non sentire.
Parlare di questi temi è scomodo, ma importante.
Perché ci sono molte donne adottate — o che hanno vissuto perdite prenatali trascurate, non elaborate, non integrate nella loro storia —
che si sentono strane, sbagliate, fredde, inadatte.
E invece sono solo protette. Doloranti. In cammino.
Per chi è stato adottato, parlare di gravidanza, di maternità, di legami biologici non è mai semplice.
Tutto è più complesso, più stratificato, più fragile.
Ma proprio per questo, merita di essere ascoltato con più cura.