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Adottati degli anni ’60-’70: da chi dovremmo ricevere le scuse?

“Chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto”: un silenzio che fa rumore per gli adottati di quei decenni

  • Le adozioni degli anni ’60-’70
  • La mancanza di preparazione e di accompagnamento post-adozione
  • La valutazione inadeguata delle famiglie adottive
  • Il processo di adozione e la distanza emotiva
  • Il contesto culturale dell’epoca: valori e contraddizioni
  • Da chi dovremmo ricevere delle scuse?
  • Il silenzio del passato e la necessità di una riflessione profonda
  • Un problema che riguarda anche gli adottati di oggi e del futuro

Tempo di lettura: 3 minuti

L’espressione “chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto” potrebbe sembrare, a prima vista, un invito alla pace con il passato, un incoraggiamento a lasciare andare ciò che non si può cambiare. Ma per chi, come me, è stato adottato negli anni ’60-’70, questa frase assume un significato più profondo e disturbante, che va ben oltre la semplice accettazione delle cose come sono.

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Le adozioni degli anni ’60-’70

Essere adottati nel 1969 significa essere cresciuti in un’epoca in cui l’adozione era spesso gestita con poca attenzione ai bisogni emotivi e psicologici del bambino. Le adozioni internazionali avevano conosciuto un vero e proprio boom, ma il loro scopo principale non era quello di aiutare bambini in situazioni critiche a realizzarsi pienamente come esseri umani, offrendo loro una vita diversa. Piuttosto, si trattava di rispondere alla domanda delle coppie italiane che non riuscivano a trovare bambini adottabili nel proprio paese. Questo fenomeno si affiancava a una pratica altrettanto inquietante: l’adozione di bambini italiani da parte di famiglie all’estero, giustificata dalla povertà del dopoguerra. Tuttavia, dietro questa giustificazione si celava un oscuro traffico di bambini strappati a madri nubili, spesso con l’inganno o sotto pressione.

Io, e tante altre persone adottate in quel periodo, siamo stati cresciuti in un contesto in cui le nostre esigenze e i nostri sentimenti erano poco considerati. Non si parlava di “diritto del bambino”, ma piuttosto di “bisogno degli adulti”. I nostri bisogni erano subordinati a quelli delle coppie sterili, che vedevano nell’adozione una soluzione al loro desiderio di avere figli. Non è un caso che l’adozione fosse soprattutto riservata alle coppie anziane. Noi adottati non eravamo percepiti dalla società come individui con una storia e un vissuto da rispettare, ma come bambini che dovevano essere grati per essere stati “salvati” e integrati in una famiglia eroica, insomma come qualcuno che aveva vinto alla lotteria.

La mancanza di preparazione e di accompagnamento post-adozione

A quell’epoca, nel contesto delle adozioni, i servizi sociali, poco strutturati e radicati sul territorio, erano spesso limitati a interventi legati al controllo o alla supervisione, senza un vero accompagnamento psicologico o emotivo per le famiglie e i bambini coinvolti. Questo ha contribuito a creare un ambiente difficile non solo per gli adottati, ma anche per i genitori adottivi, che si trovavano a gestire dinamiche complesse senza alcun sostegno. Anche oggi, purtroppo, i servizi di accompagnamento post-adozione latitano in molte aree e non sempre sono all’altezza del loro compito.

Le coppie adottive non erano preparate per affrontare i bisogni emotivi del bambino adottato, né le difficoltà legate alla costruzione di una nuova identità familiare. Si parlava (e purtroppo si parla ancora) di “adattamento”, un termine che suona come una forzatura, piuttosto che come un incontro equilibrato tra due storie e due bisogni che si fondono insieme. Questo concetto di adattamento spesso ignora la necessità di creare un legame reciproco che rispetti tanto l’esperienza del bambino quanto quella della famiglia adottiva.

La mancanza di conoscenza di concetti essenziali e di preparazione ha spesso generato situazioni di incomprensione e isolamento, sia per i genitori adottivi sia per i figli, che si trovavano a vivere in famiglie dove non c’era spazio per il dialogo sui sentimenti e sulle radici del bambino adottato.

La valutazione inadeguata delle famiglie adottive

Un altro aspetto problematico riguardava la valutazione delle coppie adottive. Le procedure per ottenere l’idoneità all’adozione erano spesso superficiali e affrettate. I tempi di attesa erano incredibilmente brevi: io stessa sono arrivata in Italia in soli tre mesi. Questo lasciava poco spazio per una valutazione adeguata delle famiglie che si candidavano per adottare. Di conseguenza, famiglie disfunzionali o impreparate ricevevano comunque l’idoneità, e i bambini venivano inseriti in contesti che non sempre erano in grado di accogliere le loro complessità.

Questa fretta era il risultato di un sistema che privilegiava i bisogni degli adulti rispetto a quelli dei bambini. Le famiglie venivano valutate più sulla base del loro desiderio di avere un figlio che della loro capacità di rispondere ai bisogni specifici di un bambino adottato e soprattutto a comprendere la fatica del bambino di inserirsi in un nuovo contesto.

Il processo di adozione e la distanza emotiva

A tutto questo si aggiungeva un elemento che oggi può apparire sconcertante: le famiglie adottive non dovevano neppure recarsi nel paese d’origine per conoscere o prendere il bambino. Io, come tanti altri bambini, sono arrivata in Italia in aereo, “pronta e confezionata”, senza una figura affettiva che mi supportasse mentre vivevo quel momento notevole. Questo approccio riduceva ulteriormente l’esperienza dell’adozione a un trasferimento del bambino, piuttosto che all’incontro con un individuo con una storia e un’identità da conoscere e rispettare. Le famiglie ricevevano il bambino senza avere alcun contatto diretto con la sua cultura d’origine, privandole così di un’importante connessione con le sue radici.

Il contesto culturale dell’epoca: valori e contraddizioni

Nonostante tutto questo, è importante riconoscere che quegli anni erano caratterizzati da un forte senso di moralità e rispetto per certi valori, come il “timore di Dio”. Tuttavia, c’è un grande paradosso in questo: i valori morali che venivano tanto difesi non sembravano estendersi alla protezione e al rispetto dei diritti e dei bisogni degli adottati. La società si concentrava maggiormente sull’atto “caritatevole” dell’adozione, senza approfondire cosa significasse realmente per il bambino.

Questo contesto ha creato un terreno fertile per una cultura del silenzio, dove i sentimenti dell’adottato venivano sistematicamente ignorati, e si dava per scontato che l’unica emozione legittima fosse la gratitudine. In realtà, molti di noi hanno vissuto un senso di smarrimento e di frantumazione dell’identità, sentendosi eternamente in debito verso famiglie che, pur con le migliori intenzioni, non erano sempre capaci di comprenderci.

Da chi dovremmo ricevere delle scuse?

Oggi, la cultura dell’adozione è cambiata, e si parla finalmente del diritto degli adottati a conoscere le proprie origini e della necessità di realizzare adozioni aperte con la possibilità di mantenere i legami con la famiglia biologica. Tuttavia, per chi, come me, è stato adottato in quegli anni, questi progressi arrivano troppo tardi.

E allora mi chiedo, da chi dovremmo ricevere delle scuse? Forse dalle istituzioni che hanno ignorato il nostro benessere emotivo, dalle famiglie che non hanno saputo guardare oltre il proprio desiderio di genitorialità, o da una società che ci ha relegato a un ruolo di eterna gratitudine senza dare spazio alla nostra voce. Le scuse dovrebbero arrivare da chi ha reso invisibili le nostre fatiche e sofferenze, da chi non ha riconosciuto il nostro diritto a conoscere le nostre origini e da chi ha permesso che la nostra identità venisse sradicata senza troppi scrupoli. Questa è una questione di giustizia morale e di rispetto dei diritti fondamentali.

Il silenzio del passato e la necessità di una riflessione profonda

Il silenzio su queste ferite del passato fa rumore, e quel “chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto” non può essere un punto di arrivo. Deve piuttosto essere il punto di partenza per una riflessione profonda su ciò che è stato fatto e su ciò che ancora può essere fatto per riconoscere il valore delle esperienze degli adottati come me. Non possiamo cambiare il passato, ma possiamo e dobbiamo pretendere che venga riconosciuto, e che le nostre storie, per troppo tempo ignorate, trovino finalmente una voce.

Un problema che riguarda anche gli adottati di oggi e del futuro

Questo è un concetto fondamentale non solo per chi è stato adottato nel passato, ma anche per i bambini adottati in tempi recenti e per quelli che verranno. In Italia, infatti, persiste una narrazione tradizionale dell’adozione, che resiste culturalmente nonostante si parli sempre più di origini e di adozione aperta, con il riconoscimento del ruolo dei genitori biologici. Questa resistenza si manifesta in una diffusa paura nei confronti delle origini degli adottati. Un esempio concreto è la normativa che consente agli adottati di accedere ai propri fascicoli solo al compimento dei 25 anni. Tale limitazione riflette un timore culturale che conoscere le proprie radici possa minacciare la stabilità emotiva dell’adottato o mettere in discussione il legame adottivo. Esiste poi lo stigma dell’adottato visto come immaturo o eternamente figlio, utile a gratificare un ruolo genitoriale che non ha ancora superato il lutto dell’infertilità.

Ma è proprio attraverso il riconoscimento delle proprie origini che un individuo può sviluppare una piena identità. Questa resistenza non fa che perpetuare il silenzio e la marginalizzazione delle storie degli adottati. Per questo è essenziale continuare a riflettere su come l’adozione può evolversi, superando paure infondate e promuovendo un approccio più aperto e rispettoso verso il passato e le radici delle persone con storia adottiva.

Avvertenza: Le opinioni e i punti di vista espressi negli articoli presenti su questo sito riflettono esclusivamente il pensiero dell’autrice, Alessandra Pritie Maria Barzaghi. Tutti i contenuti sono pensati per offrire spunti di riflessione utili e interessanti, e momenti di approfondimento su tematiche adottive, e non hanno finalità di consulenza psicologica, medica o legale. La riproduzione dei materiali presenti in questo sito è consentita solo previa autorizzazione scritta dell’autrice.

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