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Tanti piccoli fuochi

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“Tu NON HAI FATTO le scelte giuste, tu HAI AVUTO le scelte giuste. Le opzioni che essendo ricca, bianca e privilegiata hai potuto avere.”

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Questa frase sintetizza perfettamente il grande scarto che c’è tra potere e volere nella scelta di dare in adozione, mostrando come le scelte siano fortemente influenzate dalle condizioni di partenza e non soltanto dalle intenzioni personali.

In questo weekend di Pasqua, complice il brutto tempo e una leggera influenza, mi sono spalmata sul divano e ho deciso di vedere qualcosa su Prime, imbattendomi inaspettatamente in una vicenda di adozione: Tanti piccoli fuochi (Little Fires Everywhere), una serie TV tratta dall’omonimo romanzo di Celeste Ng.

La serie, composta da otto puntate, mi ha portata gradualmente in un terreno fatto di scintille e piccoli incendi familiari che si intensificano fino a diventare un grande falò di apparenze e verità nascoste.

Il nucleo della vicenda diventa evidente nella quarta puntata, alla quale si arriva senza annoiarsi, dopo aver iniziato ad affezionarsi ai vari personaggi.
Ed è proprio questo che spiazza, perché all’improvviso ci si ritrova a rivedere preferenze e giudizi, come spesso accade quando la vita si fa dura e la vera natura delle persone emerge chiaramente.

La storia è ambientata alla fine degli anni ’90 a Shaker Heights, un sobborgo di Cleveland, Ohio, e si concentra sull’intreccio tra due famiglie molto diverse: i Richardson, benestanti e apparentemente perfetti, e Mia Warren, un’artista madre single, e sua figlia Pearl.
Quando Mia e Pearl affittano una casa dai Richardson, le loro vite iniziano a intrecciarsi, portando alla luce segreti, tensioni razziali e differenze socioeconomiche.

Elena e Mia sono due madri estremamente diverse: Elena è ricca, superorganizzata, controllante e apparentemente perfetta, con quattro figli e difficoltà relazionali con l’ultima figlia Isabel, capitata per caso e considerata problematica. Mia, invece, vive alla giornata consapevole di essere una “spostata” come lei stessa si definisce. Ha un rapporto quasi di sorellanza con la figlia Pearl, alla quale spesso si appoggia, ma allo stesso tempo rivendica il proprio ruolo normativo. Mia sembra scappare dal passato e trascina la figlia da un luogo all’altro, privandola di una stabilità emotiva e relazionale.

La situazione si complica quando una controversia sull’adozione di una bambina cinese divide la comunità, mettendo in discussione le convinzioni sulla maternità, sull’appartenenza, il privilegio nelle scelte e i legami familiari faticosi tenuti insieme dall’apparenza e dal senso del dovere.

Mirabelle/May Ling è una bambina di un anno in affido, non ancora ufficialmente adottata, al centro di un caso giudiziario per la restituzione alla madre naturale, Bebe. La coppia affidataria, Linda e Mark, amici dei Richardson, vede nella piccola Mirabelle il coronamento del proprio sogno dopo anni di infertilità: “Non posso perderla, lei è il mio mondo, è tutta la mia vita. Devo andare in tribunale? E lottare per avere mia figlia?”- dice Linda in preda alla paura.

La serie demolisce lo stereotipo dell’adozione come semplice atto d’amore altruistico, mostrando invece la realtà complessa fatta di sentimenti contraddittori, lutti non elaborati e difficili compromessi.

SPOILER: Mia diventa un elemento chiave nella vicenda di Bebe; interferendo, è lei a scoprire che la bambina è stata affidata agli amici dei Richardson. Bebe, madre naturale immigrata clandestina, vive una vita triste nel ricordo della figlia abbandonata e arriverà a rimproverare Mia per aver riaperto la ferita. Mia le risponderà, invitandola a combattere per sua figlia. Allo stesso tempo, però, Mia non sembra rendersi conto di aver compiuto lei stessa un torto nei confronti di Pearl, negandole la possibilità di conoscere il padre naturale.

I genitori affidatari assumono subito un avvocato, cadendo in uno stato di profonda angoscia ed eccessiva protezione verso la bambina. Non mostrano alcuna comprensione verso la madre naturale: “Una pazza che viene a rubare nostra figlia”.

I dialoghi tra i personaggi sono intensi, come quello tra Elena e Linda, in cui emergono pregiudizi e il forte senso di possesso verso la bambina adottata: “Lei non è sua madre, è un’immigrata clandestina che ha abbandonato sua figlia al freddo e al gelo a morire, lei ha scelto di farlo, non ha più alcun diritto di essere sua madre. Andrò a dirle di stare alla larga dalla mia famiglia, dalla mia bambina.”

Elena cerca inoltre di convincere Bebe ad arrendersi, arrivando a corromperla, e nell’offrile il denaro mostra una totale mancanza di sensibilità: “Dovrete spiegarle che tu e Mark potete garantire una vita migliore a Mirabelle”- aveva detto a Linda.

Quattro donne – Elena, Mia, Linda e Bebe – cercano disperatamente di comprendere la maternità e difendere ciascuna il proprio modo di essere madre. La maternità è esplorata nella sua diversità, evidenziando come ogni donna tende spesso a giudicare negativamente le altre e a pensarsi la madre più adatta.

In particolare, la battaglia legale ed emotiva tra Bebe e i genitori affidatari mostra quanto sia radicato il senso di possesso sui bambini adottati, piuttosto che un autentico interesse per il loro bene supremo.

Un altro nodo centrale che emerge dalla serie è la questione del rispetto dell’origine etnica del bambino adottato. Durante l’udienza, l’avvocato della difesa chiede alla madre adottiva in che modo mantenga viva la connessione con la cultura di nascita di Mirabelle/May Ling. La donna resta spiazzata. Dice solo che la bambina “è una di loro”, che “non la vede diversa”, che la sente “di famiglia”. Ma proprio qui si svela il paradosso: nel tentativo di integrarla completamente, ha cancellato ogni riferimento alla sua identità culturale originaria. Non vede (e non vuole vedere) i tratti somatici cinesi della bambina, riducendo la sua etnia a un dettaglio invisibile.

La serie sfiora appena il diritto dei figli adottati a restare con la famiglia d’origine o, in alternativa, considerare l’adozione aperta per tutelare al meglio il diritto del bambino alla sua identità e origine. L’adozione resta un terreno di conflitto tra famiglie, rischiando così di diventare una sofferenza duratura per il bambino che, una volta adulto, si interrogherà inevitabilmente sulle sue origini negate.

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