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Si sa, viviamo in un mondo che corre. Corriamo sempre, senza fermarci mai, senza lasciare spazio alla riflessione, alla pausa, al respiro. Ma se c’è un luogo dove il tempo non può essere battuto, è l’adozione.
Leggi tutto: La genitorialità adottiva è una maratona, non uno sprintNell’adozione il tempo è il vero ago della bilancia. E noi, genitori adottivi, dobbiamo rallentare fino all’estremo, fermarci e imparare ad aspettare. Aspettare che un bambino ci riconosca come suoi, che la fiducia si costruisca, che le ferite facciano meno male. Ferite che non si rimarginano mai del tutto, che con il tempo possono fare meno male, ma che a volte tornano a dolere. E questa attesa è più lunga di quanto ci eravamo preparati a sopportare. Più snervante di quanto pensavamo di poter reggere. Più difficile da spiegare agli altri.
A chi ti dice che dovrebbe andare tutto bene, che ormai il bambino è “salvo”, perché ora ha una famiglia. A chi ti chiede se vi chiama già “mamma e papà”, se si è ambientato, se riconosce di essere stato fortunato. Domande che non vanno quasi mai in profondità, che non chiedono come sta davvero il tuo bambino. Come se esistesse un tempo standard per l’amore, per la fiducia, per il senso di appartenenza. Come se, trascorsi sei mesi, un anno, due anni, non fosse più accettabile dire: ci stiamo ancora costruendo.
Quante volte ho visto persone stupite del fatto che mia figlia faticava ad accettare il nuovo mondo, a sentirsi parte della nostra famiglia, come se esistesse un tempo giusto per tutto questo. Io stessa, lo confesso, pur con la mia esperienza di figlia adottiva, egoisticamente speravo ci volesse meno. Ma ora che ha quasi 22 anni, ho capito quello che già sapevo: che la genitorialità adottiva è una maratona, non uno sprint.
Non si tratta di arrivare il più in fretta possibile al traguardo, ma di stare al fianco del proprio figlio per tutto il percorso, anche quando è in salita, anche quando il traguardo sembra lontanissimo, anche quando sembra che non si stia andando da nessuna parte. E noi genitori dobbiamo accompagnare finché è necessario, costi quel che costi, perché questo percorso l’abbiamo scelto, magari non in piena consapevolezza, magari ci hanno fatto credere che bastava l’amore, che il tempo avrebbe sistemato tutto da solo. Ma quando lo scopriamo sulla nostra pelle, quando capiamo che non è così, abbiamo la responsabilità di percorrerlo fino in fondo.
Aspettare non è il fallimento della genitorialità adottiva. È il suo fondamento. Ma in una società che misura tutto con la velocità, la lentezza nella costruzione di una famiglia nata con l’adozione può essere vista con stupore, come un problema da risolvere. E così ci sentiamo soli nel nostro rallentare, soli nel nostro pazientare, soli nel cercare di dare tempo al tempo.
Ci vuole tempo. Tanto tempo. Tempo che spesso non abbiamo messo in conto, tempo che gli altri non capiscono, tempo che a volte ci fa sentire in difetto. Ma la verità è che il tempo non è il nostro nemico. È quello che ci salva.
Ci vuole tempo perché un figlio arrivato in adozione si fidi. Tempo perché abbassi le difese. Tempo perché smetta di sentirsi un outsider e inizi a sentirsi a casa. Tempo perché la famiglia si costruisca, giorno dopo giorno, senza forzature, senza aspettative rigide, senza la fretta di voler essere subito ciò che solo il tempo può permettere di diventare. E alla fine, se abbiamo saputo aspettare, se non ci siamo fatti travolgere dalla fretta e dalle aspettative esterne, scopriamo che il tempo, quello stesso tempo che ci sembrava un nemico, in realtà ci ha aiutati a vivere pienamente la famiglia, non a raggiungerla. Perché la famiglia non è un traguardo, non è qualcosa che “si diventa” un giorno. La famiglia è il percorso stesso, è il viaggio che facciamo insieme, con le sue soste, i suoi inciampi, le sue ripartenze. Il fattore tempo non si esaurisce mai, perché l’adozione è una condizione per la vita, che avvicina, unisce e che rimette tutto in discussione, per i figli e per i genitori.