Guardavo la rabbia nei suoi occhi, nella sua postura.
Era una rabbia totale, viscerale. E mi destabilizzava.
Leggi tutto: La rabbia negli occhi di mia figliaIo, quella rabbia, non l’avevo mai sentita. O almeno così credevo.
In realtà, non l’avevo mai potuta esprimere.
Ai miei tempi, i sentimenti negativi – e la rabbia in particolare – erano banditi.
Un adottato non poteva permettersi di essere arrabbiato.
Doveva accettare, essere grato, adattarsi.
E poi, da genitore, succede una cosa bizzarra: ci spingono a cambiare ruolo.
Diventiamo quelli che danno risposte, quelli che devono placare il dolore, quelli che dovrebbero “garantire” la felicità.
E così, spesso, dimentichiamo di essere stati figli.
Dimentichiamo che anche noi, in qualche modo, abbiamo provato rabbia.
Magari l’abbiamo soffocata, nascosta, resa invisibile.
Ma lei no. Lei non accettava.
Era arrabbiata per essere stata adottata.
E io, che avrei dovuto capire più di tutti, ci ero cascata.
Mi dicevo: “Come può essere arrabbiata? Perché ce l’ha con me?”
Ma poi ho guardato dentro me stessa.
E ho capito.
Forse mia figlia era stata più coraggiosa di me.
Non si era conformata, non aveva messo a tacere il dolore.
Si era ribellata.
Alla perdita.
All’abbandono.
Alla separazione.
Al trasferimento forzato, che per chi lo subisce può assomigliare a un rapimento.
E quella rabbia era giusta.
Necessaria.
Perché non era un capriccio, né un rifiuto della nostra famiglia.
Era il segno che lei voleva esistere.
Essere vista. Essere riconosciuta. Essere accolta per ciò che provava davvero.
E io, come madre, avevo una scelta: respingere quella rabbia o accoglierla.
Ho scelto di restare.
Non senza cedimenti, non senza fatica.
Ma ho scelto di restare.
Anche davanti alla rabbia.
Anche davanti al dolore.
Anche quando sembrava che non mi volesse accanto.
Anche quando mi reclamava con violenza.
Anche quando quella rabbia era vischiosa e pretenziosa.
Anche quando mi toglieva non solo lo spazio fisico, ma anche quello mentale.
Quando ogni suo bisogno si imponeva su di me,
quando la sua presenza assorbiva ogni mio pensiero,
quando non c’era tregua,
quando non c’era respiro.
Perché quella rabbia non era contro di me.
Era il suo grido per non sparire.
E io ero lì per dirle che non doveva combattere da sola.
Adottare non è diventare genitori.
Adottare è incontrare un figlio nel suo dolore, senza sapere quando diventerà tale.
E per farlo davvero, dobbiamo continuare a visitare la nostra dimensione di figli.
Perché un figlio arrivato in adozione ha bisogno, prima di tutto, di essere ascoltato.
Come forse avrei voluto esserlo anch’io.