Il remake statunitense di Dopo il Matrimonio (After the Wedding, 2019), diretto da Bart Freundlich, è una reinterpretazione del celebre film danese del 2006 di Susanne Bier, di cui mantiene l’interessante ossatura narrativa.
Ho trovato questo racconto molto commovente e straziante in alcune scene. Il film ben rappresenta le situazioni che spesso permeano le relazioni adottive: silenzi, imbarazzi, autotutela e forzature. Ma a mio avviso, il messaggio più potente del film sta nel concetto del “diritto” a decidere per gli altri.
Leggi tutto: Dopo il MatrimonioLa storia ruota attorno a Isabel (Michelle Williams), una donna dedita al sociale che gestisce un orfanotrofio in India e si vede costretta a tornare negli Stati Uniti per incontrare una potenziale benefattrice, Theresa (Julianne Moore), un’imprenditrice di successo, determinata e molto abile nei rapporti sociali. La sua è una sicurezza apparente, dietro si cela un dolore disperato ma composto di chi sa che presto perderà tutto. Theresa sembra disposta a finanziare il progetto con una grossa somma, ma vuole che Isabel partecipi al matrimonio della figlia. L’evento si rivela essere l’inizio di una serie di rivelazioni scioccanti che mettono a nudo legami nascosti e drammi del passato.
Isabel è una donna intensa e minimalista che ha già vissuto l’esperienza dell’abbandono, essendo stata adottata a sua volta. Questo dettaglio è fondamentale per comprendere il suo vissuto e il suo senso di estraneità rispetto alle dinamiche familiari in cui si trova improvvisamente risucchiata. La sua storia è quella di una donna che ha scelto di lasciare la sua terra d’origine, per radicarsi altrove, in India, e dedicarsi agli altri, forse per dare ai bambini abbandonati ciò che a lei è mancato, o che ha fatto mancare a sua volta alla sua bambina (Grace), avuta in gioventù, che ha scelto di dare in adozione, perché non si sentiva in grado di crescerla.
Più in ombra restano i personaggi di Grace e di Oscar di cui è figlia. Oscar è il marito di Theresa, che ha adottato Grace. La voce di Grace è marginale nella narrazione. La narrazione ruota intorno alle scelte degli adulti e alle loro emozioni, lasciando poco spazio all’elaborazione da parte di chi ha subito quelle scelte. Spesso, nel racconto dell’adozione il focus è sul dolore di chi ha dovuto “lasciare andare” un figlio o di chi lo ha accolto, piuttosto che sulla voce di chi ha vissuto la perdita in prima persona.
C’è una scena chiave che richiama una delle esperienze più comuni tra gli adottati: lo shock di scoprire la verità quando ormai si è adulti. Oscar ha scelto per la figlia Grace, pensando di proteggerla dalla verità: “Ti ho detto che era morta perché non sapessi che ti aveva abbandonata, perché non lo riesci a capire? Eri una bambina, non volevo causarti dolore e sofferenza.” Ma Grace lo smaschera: “Non credi che abbia sofferto comunque? Non credi che io mi senta incompleta? Non avevi il diritto di fare quello che hai fatto.” Nonostante la sua giovane età, è Grace che spiega al padre che il dolore non si evita, si trasforma. Anche senza sapere, Grace ha sempre percepito una mancanza, un vuoto. Il diritto alla verità è stato spesso negato agli adottati con la scusa che sia “per il loro bene”. Ma chi decide cosa è bene per qualcun altro?
Isabel ha scelto di dare sua figlia in adozione, ma Oscar, il padre biologico, ha cambiato idea all’ultimo momento, senza che lei ne fosse informata. Questo atto ha conseguenze enormi per Isabel, privata della possibilità di sapere che sua figlia era stata cresciuta dal suo stesso padre biologico.
Inevitabilmente Isabel passa per la donna che ha colpevolmente abbandonato, mentre Theresa è più virtuosa in quanto le ha cresciuto la figlia. Il padre Oscar si è riscattato prendendo con sé la figlia all’ultimo. Isabel sente questo giudizio su di sé ed è per questo che non vorrebbe tornare a New York dove la macchia di quella colpa la può riassalire; invece, in India si sente una persona come le altre che aiuta. Nei personaggi del film non traspare alcuna comprensione per Isabel, per il fatto che in quanto adottata ha ripetuto lo schema familiare che conosceva, non avendo avuto una relazione naturale con la madre, non poteva averla nemmeno con la figlia. Ovviamente questo non capita a tutti gli adottati, ma per alcuni può essere facile cadere in questa contraddizione.
Poco curata è la réunion tra Grace e Isabel. La loro distanza emotiva è palpabile: nonostante un legame di sangue, tra loro c’è una frattura che non si può ricomporre con una semplice rivelazione. Al ristorante, Grace chiede a Isabel: “Per caso ho delle sorelle o dei fratelli di cui non sono a conoscenza?” E aggiunge con estrema franchezza: “Io non riuscirei a dare via il mio bambino.” Isabel si giustifica così: “Neanche io l’avevo pianificato, non avrei potuto prendermi cura di te, farti venire al mondo era quanto di meglio potessi fare.”
I sentimenti di Grace sono accennati, ma mai veramente indagati. La narrazione torna sempre sugli adulti che hanno “fatto il meglio che potevano”, senza mettere realmente in discussione il diritto dell’individuo a conoscere la propria storia e a elaborarla. C’è però uno smarrimento che accumuna madre e figlia, un tema caro agli adottati: la sensazione di non appartenere fino in fondo a nessun luogo. Isabel ha costruito una vita lontana da quel mondo che ora la richiama indietro e nel quale non si sente a proprio agio. Grace, dopo aver saputo di essere figlia di Isabel e averla conosciuta, mette in discussione tutte le sue scelte, incluso il matrimonio appena celebrato. L’aver aggiunto il tassello mancante alla sua identità la trasporta in una dimensione diversa da quella precedente, quando non sapeva nulla della madre naturale, e di cui non può più sentirsi parte come prima.
Theresa ha i mezzi economici per cambiare la vita di chiunque e fino alla fine usa il suo potere per orchestrare la situazione secondo i propri bisogni emotivi. È malata terminale e decide di dare un futuro per i suoi figli, scegliendo Isabel come sostituta materna senza consentirle di sceglierlo: fa leva sulla donazione all’orfanotrofio per trattenerla a New York. Solo in apparenza, però, c’è disparità di potere tra Isabel e Theresa. In realtà, il potere è tutto nelle mani di Isabel e nella possibile decisione di aiutare una disperata Theresa.
Da tutte queste linee narrative emerge la questione centrale nel mondo dell’adozione: chi ha il diritto di decidere della vita degli altri? Tutti prendono decisioni sulla vita degli altri, senza mai chiedere direttamente alle persone coinvolte cosa vogliano.
Ecco alcuni dialoghi dove questo concetto mi sembra evidente:
Grace alla madre adottiva Theresa, gioiosa nel giorno del suo matrimonio:“Mamma, hai reso questo un giorno speciale, tu sei il più amorevole, affettuoso miglior esempio di donna che potrei mai aver desiderato come madre. Io ho avuto il raro privilegio di scegliere mia madre.”
Questa frase è particolarmente significativa perché racchiude il modo in cui l’adozione viene spesso romanticizzata: l’idea che un bambino “scelga” i suoi genitori adottivi, quando in realtà l’adozione è un evento che si subisce. Un figlio adottivo non sceglie nulla. È separato dalla sua famiglia biologica, cresce in un contesto che gli viene imposto e solo da adulto può forse riconciliarsi con le sue radici e le sue figure genitoriali. Grace non ha mai avuto una vera possibilità di conoscere e scegliere sua madre biologica, perché la verità le è stata nascosta.
Isabel a Oscar quando scopre che lui ha tenuto la loro bambina: “Voglio sapere perché mia figlia è nella camera accanto? Come fai a vivere così?”
Oscar: “Vivo meglio così che se l’avessi fatta crescere da qualcun altro.”
Isabel a Oscar: “Perché non mi hai detto che l’avresti tenuta?“
Oscar: “Non volevi essere trovata, sei scappata via dall’ospedale. L’ho deciso dopo che sei andata via, era troppo tardi e non sono riuscito a trovarti.“
Oscar crede di aver fatto il meglio, ma ancora una volta, tutto viene deciso senza coinvolgere chi quella storia la subisce davvero: prima Isabel, poi Grace.
Theresa, invece, crede che il denaro e il controllo possano risolvere ogni problema, perfino la morte.
Isabel a Theresa quando rifiuta di restare a New York e accettare la donazione ricattatoria:
“Credi che siccome sei ricca io cadrò ai tuoi piedi?”
Theresa: “E tu facendo la missionaria credi che riparerai al fatto di aver abbandonato tua figlia!”
Questa è forse la frase più crudele del film, ma anche una delle più rivelatrici. Theresa espone Isabel in un modo brutale, ma dice qualcosa di vero: cosa significa per Isabel aver lasciato la sua bambina? Sta cercando di espiare la sua colpa attraverso il suo lavoro con i bambini in India?
Prima di morire, Theresa vuole che Isabel prenda il suo posto nella vita di Grace e dei gemelli. Qui la sceneggiatura sembra suggerire che le figure materne siano intercambiabili, che un bambino possa avere più madri nella sua crescita, o che sia il bambino a creare le madri. È un concetto che potrebbe risolvere il problema del senso di proprietà nell’adozione, che spesso impedisce agli adottati di spiccare il volo, perché c’è da rassicurare una coppia che non ha potuto elaborare il lutto dell’infertilità. Ma la realtà adottiva ci insegna che non è così semplice. La relazione tra madre e figlio, biologica o adottiva, è un intreccio complesso di amore, ferite, legami e mancanze.