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Il silenzio degli adottati

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C’è un silenzio rispettoso e carico di valore che si percepisce nelle persone con una storia adottiva. L’ho colto nei molti adottati che ho incontrato: un silenzio che affonda le sue radici in un sentimento profondo, una gratitudine intensa verso i genitori adottivi. È un sentimento naturale, comprensibile, quasi inevitabile. Io stesso l’ho provato e lo provo tuttora. Eppure, per alcuni di noi, questa gratitudine si trasforma in un peso insidioso, in una barriera invisibile che ci spinge a pensare di non poter chiedere di più.

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È come se il “tanto” che abbiamo ricevuto bastasse e avanzasse per la vita intera. “Sono stato salvato dall’adozione, non posso chiedere altro.” Questa frase, intrisa di rassegnazione, è la conseguenza di una narrazione sbilanciata che tuttora presenta l’adozione come un atto di salvezza, e non come il diritto a una nuova famiglia.

Ma questa rinuncia a chiedere, a rivendicare diritti fondamentali, può diventare un freno al proprio percorso di realizzazione e al prezioso contributo che potremmo dare alla società, proprio in virtù della nostra storia. È un ostacolo alla possibilità di sentirsi pienamente se stessi, di agire per se stessi. Alcuni rinunciano a scoprire le proprie origini o a parlare apertamente dei propri bisogni, che non si sono esauriti con l’evento dell’adozione. “Beh, tu sei a posto, sei stato adottato!” l’ho letto tante volte negli sguardi di chi chiedeva della mia storia.

In una società che privilegia la narrazione degli adulti — quella degli adottanti e dei cosiddetti esperti — le nostre voci rimangono ai margini. La parola amore cala dall’alto come un velo che nasconde i bisogni irrisolti degli adulti. C’è una verità difficile da evidenziare e da digerire: la stragrande maggioranza di chi adotta lo fa come ultimo approdo nella ricerca di un figlio. Questa motivazione, legittima e umana, viene però mascherata o negata, scivolando in una sorta di ipocrisia culturale che pesa sugli adottati, costretti a portare tutto il peso del debito, quando in realtà anche loro portano ricchezza nella famiglia.

Non si tratta soltanto del diritto a conoscere la propria storia e, dove possibile, a mantenere un legame con la famiglia biologica — legame che non rappresenta una minaccia all’amore che un figlio adottivo prova verso la propria famiglia adottiva — anche attraverso forme più flessibili come l’adozione aperta.

Si tratta di dare spazio e voce agli adottati. Il nostro contributo è complementare e necessario per offrire una visione più completa e autentica di questa esperienza. Per questo, sarebbe opportuno accogliere una pluralità di testimonianze di adottati nei dibattiti sull’adozione, includere gruppi di persone adottate nelle commissioni legislative o nei processi decisionali che le riguardano, e invitare gli adottati adulti nei percorsi formativi delle coppie di aspiranti genitori adottivi.

Adottare non significa solo superare un iter burocratico, che è il primo passo, e forse il più semplice. Significa essere informati su chi è la persona adottata, accettare la sua complessità, e per farlo è necessario ascoltare chi vive l’adozione sulla propria pelle. Significa smettere di infantilizzarci, di proteggerci dal dialogo sull’adozione nel timore di rovinare un presunto equilibrio raggiunto, e garantire la nostra piena legittimazione sociale.

Non a caso, è più diffuso il termine “figlio adottivo” rispetto a “persona con storia adottiva.” Le parole contano. Modellano il modo in cui la società percepisce e tratta chi ha vissuto l’esperienza adottiva, mantenendoci in una posizione subordinata, di perenne tutela, come se fossimo figli perpetui.

Una volta, una persona adottata mi ha confidato un pensiero non convenzionale che mi ha colpito molto. Mi raccontò quanto dolore avesse provato alla morte dei genitori adottivi, ma anche il sollievo che ne era seguito. Con la loro scomparsa, non si sentiva più “adottata”; si era finalmente liberata di un’etichetta che aveva sempre percepito come un limite, come un vincolo. Per la prima volta, si sentiva una persona, non una persona “adottata.”

A voi, persone con una storia adottiva, voglio dire: non siete solo “adottati” — che poi fa rima con “grati.” Non abbiate paura di chiedere ciò che vi spetta, di rivendicare il vostro diritto a conoscere le vostre radici, a essere ascoltati, a partecipare pienamente nel mondo adottivo. L’adozione riguarda voi, è di voi che si parla nei dibattiti.

L’adozione sarà sempre la vostra peculiarità, la vostra condizione esistenziale, che l’accettiate o meno, ma non lasciate che continui a sottrarvi ciò che è vostro.

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