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Into the Fire: La Figlia Scomparsa

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L’altra sera ho visto un docufilm che mi ha letteralmente tolto il respiro, uno di quei fatti di cronaca che ti lasciano con un peso sul petto a chiederti come sia possibile che certe storie accadano davvero.
Into the Fire: La Figlia Scomparsa, prodotto da Charlize Theron, racconta la vicenda di Aundria Bowman, una ragazza adottata che ha vissuto un destino terribile all’interno di una famiglia non solo disfunzionale, ma letalmente pericolosa. Non parliamo di difficoltà genitoriali comuni, ma di un vero e proprio incubo.

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Al centro del racconto vi è l’orrore vissuto da Aundria nelle mani del padre adottivo, Dennis Bowman, uno stupratore e serial killer, e della madre adottiva, Brenda, che, accecata dall’amore per il marito, non solo ha ignorato ma ha tradito la figlia, non proteggendola.

Se da un lato questa è una situazione estrema, dall’altro ci induce a fermarci e riflettere su quanto a volte il sistema fallisca miseramente. La vicenda risale al 1989, un’epoca in cui i diritti dei bambini erano già protetti dalle leggi. Il caso ricorda quello di Asunta Basterra, una delle prime bambine cinesi adottate in Spagna, uccisa nel 2013 a soli 12 anni dai genitori adottivi, una coppia benestante di Santiago di Compostela.

Ma quello che mi ha colpito, oltre all’orrore, è come Aundria, pur vivendo in questo contesto tossico e pericoloso, non sia stata tolta da quella casa. Ammettendo anche il fallimento dell’adozione — perché sì, le adozioni possono fallire, anche se di questo tema nessuno vuole parlare — Aundria avrebbe dovuto essere ricollocata subito, invece di restare prigioniera di una famiglia che non solo non era in grado di darle amore, ma rappresentava un pericolo mortale.

Il pensiero mi è andato al tema del rehoming, una pratica illegale in cui i bambini adottati vengono “rispediti indietro” o, peggio ancora, ricollocati dai genitori adottivi tramite social media, come fossero oggetti di cui disfarsi. Eppure, pur riconoscendo quanto sia pericolosa e moralmente discutibile, nel caso di Aundria, una ricollocazione sicura e legale avrebbe potuto salvarle la vita. Non posso fare a meno di chiedermi: perché nessuno ha fatto nulla? Perché, dopo che Aundria aveva denunciato gli abusi, non è stata tolta dai Bowman? Perché non le è stata data la possibilità di una seconda chance in una famiglia che potesse prendersi cura di lei?

La storia di Aundria mi ha ricordato quella, invece, andata a buon fine di Ana Shurmer, una bambina adottata dalla Lettonia e poi “ricollocata” anni dopo, quando la famiglia adottiva si è resa conto di non poter gestire le sue difficoltà emotive. Anche se il rehoming è, e deve rimanere, una pratica illegale, situazioni come queste dimostrano quanto sia necessario avere sistemi alternativi, sicuri e regolamentati per intervenire quando un’adozione va male.

Nei casi di rehoming, senza arrivare alla situazione drammatica di Aundria, i bambini finiscono spesso in famiglie non preparate per gestire le difficoltà emotive e comportamentali che emergono dopo l’adozione. I genitori, sentendosi abbandonati dal sistema e incapaci di sostenere i bisogni dei loro figli, cercano soluzioni disperate, talvolta illegalmente, mettendo a rischio la sicurezza dei bambini.

Nel contesto italiano, dove non esiste la pratica del rehoming, possono verificarsi situazioni che si incancreniscono, lasciando nella sofferenza famiglie che, per anni, devono affrontare gravi incomprensioni, contrasti accesi e crisi adottive, in cui, nonostante tutta la buona volontà, non si riesce a raggiungere un riconoscimento reciproco. Oppure, si manifestano sotto forma di affidi sine die, che lasciano crudelmente bambini e ragazzi in una condizione di perenne incertezza e instabilità emotiva.

Mentre guardavo il docufilm, riflettevo anche sull’adozione come soluzione “facile” alle gravidanze adolescenziali: la madre biologica di Aundria, Cathy, nel 1974, a soli 16 anni, era stata costretta a credere che dare in adozione la figlia fosse un dono, la scelta migliore per Alexis, il nome che aveva scelto per la bambina, poi cambiato in Aundria dalla famiglia adottiva che l’aveva accolta a nove mesi di età.

“Se solo mi avessero aiutato a tenerla…” dice Cathy nel film. “Mi hanno convinto che avrebbe avuto genitori migliori tramite l’adozione. Avrei potuto fare questo per lei, se lo meritava. Ho fatto un passo indietro, ho dato mia figlia in adozione perché potesse avere una vita migliore.”

Trattandosi di un’adozione chiusa, Cathy non aveva diritto a ricevere notizie sulla figlia, e solo nel 2010 ha scoperto che Aundria era scomparsa all’età di 14 anni. Con grande tenacia materna, Cathy ha cercato di far luce sul caso, malamente indagato dalla polizia.

Il film raggiunge il suo culmine con la sensazione inspiegabile di Cathy, la sua incredibile connessione con Aundria: Cathy sentiva profondamente che la figlia fosse stata seppellita nel giardino della casa della famiglia adottiva. Le autorità scopriranno poi il corpo di Aundria proprio lì, nel luogo che la madre aveva immaginato.
Questo elemento trascendente dimostra come, nonostante la separazione forzata, il legame tra madre e figlia rimanga intatto, andando oltre il tempo e lo spazio. Quasi come a ricordarci che il legame biologico è qualcosa che non si può spezzare, non importa quanti anni o chilometri separino una madre da sua figlia.

“Non ho mai sentito la sua voce, non mi ha mai chiamato mamma, ma io sono la sua mamma. Alexis non se n’è andata del tutto. Io sono la cosa più vicina alla sua anima, sono quasi diventata lei, una lei più matura, più arrabbiata. È stato come entrare in un fuoco che mi ha trasformata.”
Un elemento straziante del racconto è la lotta di Aundria per essere creduta. La ragazza denunciava gli abusi fisici del padre adottivo, ma la famiglia allargata non le ha mai dato credito. Solo le sue amiche l’hanno ascoltata, mostrando il profondo isolamento in cui si trovava.

Pur rappresentando un caso limite, Into the Fire mette in evidenza quanto, nel post-adozione, sia fondamentale ascoltare il parere dei bambini e dei ragazzi su come si trovano nella loro nuova famiglia. Troppo spesso, i controlli post-adottivi si limitano a visite domiciliari, soprattutto nei primi tempi, in cui i genitori adottivi presentano una casa pulita e in ordine. È necessario creare spazi di ascolto autentici, dove i bambini possano esprimere i loro sentimenti, disagi e paure, senza la pressione di dover compiacere gli adulti intorno a loro.

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