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Nato fuori legge

di Trevor Noah

Storia di un’infanzia sudafricana

“L’idea geniale dell’apartheid consisteva nel convincere la maggioranza schiacciante della popolazione a prendersela gli uni con gli altri.”

Così inizia la travolgente autobiografia di Trevor Noah, NATO FUORI LEGGE. Un libro che, come ho aperto, non ho potuto fare a meno di terminare nel giro di due giorni.

Con la sua scrittura coinvolgente e ironica, l’autore racconta del luogo in cui è nato e cresciuto, il Sudafrica, dove l’atrocità dell’apartheid è incredibilmente sopravvissuta fino a trent’anni fa.

Quando Trevor nacque a Johannesburg nel 1984, la relazione tra i suoi genitori era considerata illegale: sua madre Patricia di etnia xhosa era classificata come nera e suo padre Robert, svizzero tedesco, era classificato come bianco.

Noah era definito “coloured”.

In poco più di trecento pagine, Trevor narra la sua infanzia di bimbo di sangue misto, in un mondo permeato dalla violenza e dall’ingiustizia. Ragazzino vivace e combinaguai, non riesce a trovare una collocazione fisica e mentale in quella realtà, in quanto è detestato sia dai neri che dai bianchi. Trevor resta così incastrato in un limbo assurdo, dove vivevano i “coloreds”, ibridi chiari o scuri di pelle, bianchi o neri, con tratti asiatici, discendenti meticci frutto della mescolanza tra colonizzatori olandesi, indigeni kholsan e schiavi importati. I coloreds venivano considerati cittadini di serie B, non godevano dei diritti dei bianchi, ma avevano più privilegi rispetto ai neri. Privi di un’identità propria, dovettero mutuare la loro cultura altrove, prendendola a prestito da quella degli afrikaner.

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Nell’apartheid la famiglia mista era vista come qualcosa di intollerabile e i bimbi di sangue misto venivano portati di nascosto all’estero e cresciuti in esilio. Trevor fu un’eccezione: riuscì a restare in Sudafrica, perché da piccolo veniva tenuto nascosto in casa. Gli era vietato uscire a giocare con gli altri bambini, per il rischio che venisse notato, tolto alla mamma e rinchiuso dai servizi sociali in un istituto per coloreds.

Il sistema perverso dell’apartheid aveva creato una classificazione arbitraria tra le persone, costringendo i gruppi “inferiori” a vivere con il patema di perdere la condizione sociale acquisita: i coloreds erano a volte promossi a bianchi o degradati a neri, secondo il bizzarro test della matita inventato dalla stupidità dei funzionari: se una matita tra i capelli restava aggrappata, eri nero, se cadeva eri colored.

Patricia, ragazza ribelle e donna molto religiosa, consapevole di ciò che è giusto e sbagliato, lo alleva in modo lungimirante, preparandolo a una vita di libertà, ancor prima della scarcerazione di Mandela e della fine dell’apartheid nel 1994.

La figura di Patricia ha avuto un ruolo centrale nella crescita di Trevor. Lo incoraggia a ritrovare il padre Robert per completare la propria identità, quel padre al quale non aveva mai potuto camminare a fianco per strada e che poteva chiamare soltanto per nome, in modo da non destare sospetti.

Patricia dà a Trevor un insegnamento prezioso: la capacità di dimenticare le sofferenze, andare avanti e cercare sempre nuove esperienze gratificanti. Trevor oggi è un uomo realizzato, comico, attore e conduttore televisivo.

“Odio a parte (ndr. l’apartheid) si riduceva a questo: suddividere le persone in gruppi e fare in modo che queste si odiassero, rendendo possibile controllarle tutte” continua il racconto di Trevor.

In Sudafrica i rapporti interrazziali e la mescolanza tra le razze erano severamente puniti con la reclusione, ma allo stesso tempo strumentalizzati per creare discordia e divisione.

Contribuiva a rimpinguare la varietà razziale la presenza di cinesi, etichettati come neri, mentre i giapponesi godevano dello status di bianchi in quanto era importante mantenere buoni rapporti con il Giappone per importare prodotti di lusso e tecnologici.

Questa bizzarra schematizzazione cromatica creava gruppi ostili tra loro: neri, bianchi, indiani, cinesi, coloreds, in un sistema di oppressione introdotto e operato dai due gruppi bianchi: gli afrikaner, discendenti dagli immigrati europei calvinisti (olandesi, francesi ugonotti e tedeschi), e i britannici che mantennero la segregazione allo scopo di derubare il Sudafrica delle sue ricchezze in oro e diamanti.

Trevor descrive con arguzia e spirito di osservazione il sistema urbanistico che era stato istituito per incentivare la suddivisione e accrescere l’odio: città e quartieri solo per i bianchi, con palazzi sontuosi e campagne verdeggianti, erano circondati da baraccopoli-prigioni dette township (ghetti di stato per la servitù nera soggette a coprifuoco), dalle sovrappopolate homeland (territori neri a sovranità limitata che sorgevano su terreni poco fertili) e dagli hood (ghetti con fogne a cielo aperto).

Nel tempo, si era creata una complessa stratificazione e differenziazione sociale, nella quale faceva la differenza in termini di qualità di status avere tre camere invece di una, un vialetto o un cancello, e potersi permettere un cheeseburger, invece di un semplice hamburger senza formaggio.

La separazione non era soltanto fisica ma anche linguistica: la strategia del mantenimento dei diversi idiomi africani amplificava la diffidenza tra loro le varie tribù, cosicché zulu, xhosa, tswana, sotho, venda, ndebele, tsonga e pedi continuarono a combattersi a vicenda.

Trevor racconta episodi gustosi della sua infanzia e adolescenza, lasciando trasparire tutta la sua amarezza per un sistema crudele e dittatoriale, non da meno del nazismo, ma a differenza di questo, fatto passare come la normalità.

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