di Nury
Sull’aereo che mi portava in Italia ero agitata da tanti pensieri. Pensieri di una bambina cresciuta troppo in fretta.
Osservavo la mia terra natia che scompariva dall’oblò e provavo un sollievo misto a paura. Lasciavo le cose brutte che la vita mi aveva riservato fino a quel momento, le uniche che aveva saputo darmi, ma ero spaventata all’idea che forse non avrei più rivisto ciò che di bello avevo saputo cogliere.
Stavo abbandonando il mio paese, la mia esistenza in un luogo dove le mie sorelle erano rimaste e dove mia madre era sepolta. Le nuvole soffici sotto di me mi davano conforto. Che fossi già in paradiso? Immaginavo il sorriso di mia madre. Era felice per me, finalmente non sarei stata più sola: ero rinata diventando figlia, ma di qualcun altro.
Nel viaggio i ricordi prendevano il sopravvento: piccolina, camminavo già dietro a una bara, insieme alle mie sorelle e ad alcuni parenti. C’era una vita spezzata e c’erano tanti cuori infranti. Il mio cuoricino aveva cercato di darle tanto amore per farla sopravvivere, ma alla fine lei era volata via.
Ero la più piccola di sei figlie. Ogni giorno ci recavamo tutte al mercato, non per acquistare oggetti, ma per chiedere l’elemosina. Quei soldi servivano per curare la mamma e noi tornavamo a casa contente di poterle assicurare le medicine per un altro giorno. Non ci interessava avere una bella abitazione, e nemmeno avere da mangiare tutti i giorni. Volevamo soltanto che lei sopravvivesse, così avrebbe potuto prendersi cura di noi per sempre. Ma un brutto giorno, lei se n’è andata. Avrebbe dovuto dare alla luce una bellissima bambina. Quel brutto male ha vinto e l’ha strappata a me, a noi, per sempre.
Seguivo la bara in silenzio, e mi chiedevo perché mia madre stesse lì dentro, come facesse a respirare al buio che mi aveva sempre terrorizzato, perché l’avessero messa tra due pareti, le stesse che ogni sera mi schiacciavano nel mezzo. Non potevo più toccarla, non potevo sentire la sua voce. Anche la mia vita si era spezzata.
Mi sedevo sulla riva del fiume, ascoltavo il rumore dell’acqua e cercavo la sua voce. Restavo sotto la pioggia che si mescolava alle mie lacrime. Guardavo il sole e chiudevo gli occhi per ricordare il suo volto. Tutto mi riportava a lei.
La mia vita le apparteneva perché lei mi aveva creato, ma ero disarmata senza di lei. Se n’era andata via troppo in fretta, e io avevo bisogno che mi insegnasse a vivere, ad amare anche senza una casa, anche senza cibo, ma soltanto attraverso il suo amore profondo, l’amore di una madre.
Ricordavo la mia nonnina colombiana, i ricordi più belli della mia infanzia sono legati a lei.
Avevo tre anni e portavo i capelli lunghissimi. Lei mi diceva che avevo capelli d’oro perché sotto la luce mandavano riflessi dorati. Me li pettinava di continuo e in quei gesti io avvertivo il suo amore. Li acconciava formando lunghi boccoli e diceva che ero bellissima. Ogni volta che passava la spazzola sulla mia testa, io mi sentivo più forte. Il dolore per la perdita di mia madre si alleggeriva e per qualche minuto sognavo di vivere in un altro mondo.
Mia nonna mi faceva sognare, mi faceva volare con le sue parole di conforto e di speranza. Era piccola e magra, e molto anziana. Le rughe del tempo e delle sofferenze patite l’avevano segnata nel profondo. Anche lei portava i capelli lunghissimi, ma i suoi erano neri come il carbone. Era sdentata, ma anche provvista di pochi denti, il suo sorriso era splendido, perché veniva dal profondo dell’anima.
La mia famiglia biologica non possedeva niente, nemmeno una vera casa. A volte mancava anche il cibo, figuriamoci i vestiti alla moda, ma lei continuava a pettinarmi i capelli, a dirmi che ero una bella bambina e tutto questo mi bastava, perché mi sentivo amata.
Anche adesso, quando mi pettino i capelli, penso a lei, alle sue carezze e alle sue dolci parole. Sono ancora vivide nella mia mente e nel mio cuore.
Non avevo ricordi di Babbo Natale, ma rammento il presepe che ogni anno facevamo in Colombia. Per l’occasione venivano a farci visita gli americani, quelli degli Stati Uniti, e ci portavano dei doni. Organizzavano una sorta di caccia al tesoro e ogni bambino doveva trovare il proprio regalo.
Ne ricordo uno in particolare. Quella sera, c’era una bellissima stellata. Il cielo era scuro e il buio faceva risaltare le luci. Ammiravo sempre le stelle di notte, come le nuvole di giorno. Mi trovavo nella Casa di Suor Marta, il nome con cui chiamavamo l’orfanotrofio. Dopo aver scoperto dove era stato nascosto il mio dono, mi ero rifugiata nel dormitorio per scartarlo in solitudine. Era il regalo più bello che avessi mai ricevuto, e non ne avevo avuti molti nella mia vita. Si trattava di una lucciola, come quelle che intravedevo la sera in mezzo ai cespugli. Pensavo che me l’avesse mandata mia madre dal cielo, perché sapeva che avevo molta paura del buio. La lucciola poteva illuminare le notti senza la luna, come avrebbe fatto lei se avesse potuto starmi accanto.
Mi addormentai serena e contenta. Come tutti i bambini vedevo l’essenziale. In realtà, non era una lucciola ma un bruco blu. In seguito, ho scoperto che figurava al secondo posto nella classifica dei dieci peggiori giocattoli degli anni ’80. Per me è rimasto il regalo più bello che ho ricevuto.
Avevo sei anni allora, ma ero minuta e ne dimostravo molti di meno. Leggera come una piuma, pesavo venti chili. I miei genitori adottivi sono venuti a prendermi quando avevo bisogno di loro, quando un figlio cerca l’amore della mamma e del papà nel momento più critico della propria esistenza: la malattia.
Stavo uscendo dalla quarantena. Mi ero beccata un brutto virus. Attorno a me c’erano persone in tuta protettiva che mi portavano il cibo e se ne andavano di corsa. Arrivavano i medici, mi controllavano e anche loro se ne andavano in fretta. Non avevo giocattoli per distrarmi, ma in fondo non mi sarebbero stati utili, perché non avevo nemmeno la forza di recarmi in bagno. Non c’era la TV, solo un letto, io e una finestra che era il mio televisore sul mondo esterno: cercavo di dare una forma o un volto a tutto, mentre i giorni e i mesi trascorrevano, e a poco a poco si portavano via la mia malattia.
Quando calava la notte, gli incubi prendevano il sopravvento: sognavo che i muri della stanza mi schiacciavano. Ero stata lì dentro sola per troppo tempo. Non ho mai perso le speranze di uscirne viva e felice. Sognavo la neve, sognavo il mare che non avevo mai visto. Sentivo mia madre vicina, nonostante non ci fosse più. Sentivo la presenza della sua anima accanto alla mia, mi dava la forza di resistere ogni giorno.
Ero quasi guarita quando i miei nuovi genitori dissero di volermi. Terminai le cure con loro. Ero felice.
In Colombia, ho trovato le spalle forti di un uomo: mio padre adottivo mi sorreggeva, perché ero debole e fragile, mi portava sulle sue spalle ogni volta che mi lamentavo di essere stanca. Mia madre mi curava con dedizione ogni giorno. Ho trovato i miei genitori, la mia famiglia, nel momento in cui ne avevo bisogno.
Sull’aereo per l’Italia, guardavo i miei genitori adottivi seduti accanto a me. Erano contenti e io mi sentivo figlia. Una sensazione bellissima, scontata per molti, ma non per me. Quanti davvero si soffermano ad apprezzare il privilegio di essere figlio di qualcuno, avere un’identità e una famiglia come punto di riferimento?
Non sapevo che cosa mi attendesse, ma ero certa che qualunque cosa fosse, sarebbe stata migliore del prima. Una seconda vita che avrebbe chiuso fuori il passato.
Non mi sono sentita salvata. Mi sono sentita voluta perché qualcuno aveva bisogno di me. Quel qualcuno si era accorto di me, anche lui aveva bisogno di me. Sarei diventata importante per qualcuno, proprio come lo è un figlio per un genitore.
Dopo l’adozione, non ho più sognato la mia madre biologica. Dal cielo mi ha affidata in buone mani, trovando a sua volta la pace. Avevo appena tre anni e una parte di me se n’era già andata: aveva messo le ali ed era salita in cielo. E così, i miei occhi si erano accorti della bellezza del cielo, il suo colore, le nuvole soffici. Ogni volta che ne sentivo il bisogno, alzavo la testa e mi rifugiavo in quello splendido infinito. Troppo piccina per capire che esisteva un Dio. Il mio Dio era la natura. Il cielo azzurro, il rumore del fiume mi trasmettevano serenità. Sentivo il profumo della terra, il silenzio mi predisponeva all’ascolto della natura, la pioggia confondeva le mie lacrime.
Temevo soltanto la notte buia, quando le stelle si nascondevano al mio sguardo, ma a volte le lucciole prendevano il loro posto, e io immaginavo che le stelle fossero scese a farmi compagnia.
Trovavo la bellezza nelle piccole cose, che poi piccole non sono. Quanto mi piacerebbe farvi ascoltare la musica della natura, quella musica che possiamo udire soltanto quando ci fermiamo, quando ci allontaniamo da tutto per rimanere soli con noi stessi. La natura ha il potere arcano di guarire l’anima anche quando tutto sembra perduto.
Ho imparato ad amare il mio nome che tanto avevo paura a pronunciare, perché in Italia non lo capiva nessuno e i bambini mi schernivano paragonandolo al dialetto siciliano. Ho imparato ad amare la mia condizione di adottata. Ho sempre temuto il pregiudizio, ma col tempo ho capito che era soltanto il prodotto dell’ignoranza. Adesso, quando pronuncio il mio nome, ne vado fiera. Le persone si stupiscono nel sentirlo, ma poi osservano che è un bel nome. Avrei voluto che me l’avessero detto anche quando ero bambina.
Ho imparato a distinguere cosa è davvero importante, prima ancora di diventare figlia. C’è un motivo per cui il tempo è scandito dalle ore, dai giorni, dalle settimane e dai mesi. Serve per percepirne la preziosità, un incentivo a migliorarsi, a dimostrare che si può essere umili, ma arricchiti di esperienze e di valori che a volte si sottovalutano: un sorriso, una parola di conforto, un gesto gentile. Il tempo sprecato non torna più.
Avevo visto la mia mamma andarsene quando avevo tre anni. È una qualcosa di impensabile e di innaturale che una creatura rimanga sola, senza le carezze e le parole dolci di una madre.
Avevo visto amiche e parenti andarsene troppo in fretta. Non c’è una spiegazione logica che vite giovani siano stroncate così crudelmente, e che le mamme abbiano il cuore a pezzi e restino con la speranza di rivedere i propri angioletti in un’altra dimensione.
Forse il paradiso è qui, perché la presenza di chi se n’è andato continuiamo a sentirla all’alba e al tramonto, nelle notti stellate e di luna piena, nella brezza del mare, nell’aria fresca di montagna, nel profumo dei fiori, in una giornata di sole, in una giornata di pioggia o di neve, nel tepore del camino, nel vento che accarezza il viso, nel profumo del caffè, in una canzone, nella bellezza che ci circonda e che ci fa capire che nessuno è andato via per sempre. Le persone restano nella testa e nel cuore. Chi muore abita sempre dentro di noi e con noi.
In fondo, chi va via, non lo fa per sempre. Se percepiamo la loro presenza è perché vivono con noi, in una dimensione parallela alla nostra. Sentivo l’amore profondo della mamma e lo ricambiavo. Ricambiavo quell’amore indescrivibile che viene dal profondo dell’anima, e che, spezzandosi in fretta, mi aveva insegnato cos’era il dolore e cos’era la morte.
Ho sempre desiderato essere una figlia esemplare. La mia priorità era non deludere i miei genitori, non da figlia adottiva (c’è che ritiene che gli adottati debbano dare di più), ma solo da figlia, perché credo che ogni genitore meriti gratitudine, per il semplice fatto che ti ha cresciuto senza abbandonarti, per averti trasmesso dei valori con i quali affrontare al meglio possibile questa nostra vita di passaggio.
Mio marito è il padre che ogni bimba vorrebbe, con pregi e difetti come tutti, ma sempre presente, il padre che ama infinitamente ciò che ha creato. Guardo mia figlia e immagino me stessa con il padre che non ho avuto alla sua età. Immagino il suo volto, mi chiedo se fosse al corrente della mia esistenza, se si sia ricordato di me almeno per un giorno.
Per un certo periodo, ho trascorso le mie giornate rinunciando all’idea di aspettare mia madre. Potevo vederla soltanto nei miei sogni, ma aspettavo lui che mi aveva creata. Aspettavo che mi facesse una sorpresa, che mi venisse a salvare come nelle favole, come fa il principe con la sua principessa. Ho aspettato tanto e gli anni passavano. Invece di mio padre, sono arrivati i miei genitori adottivi. Li amo infinitamente, lei è mia madre, devo a lei ciò che sono adesso. Lui ha saputo colmare l’affetto del padre invisibile che avevo, di quel padre astratto rimasto nei miei pensieri fino all’età di sette anni.
Negli occhi di mia figlia vedo me bambina. Lei è al colmo della felicità quando dice a me e a suo padre che ci vuole bene “più in alto dei pianeti”. Colgo il suo orgoglio, quando ci presenta agli altri: “Questa è la mia mamma e questo è il mio papà”. Mi emoziono quando dichiara che sono la mamma più brava del mondo. Sono immensamente fiera della mia famiglia. Ripensando al mio passato, penso che il destino mi abbia ripagata bene, donandomi la mia famiglia.
Sto insegnando a mia figlia che i figli risiedono prima nel cuore delle mamme. Le dico che io non ero nella pancia della sua nonna italiana, ma che sono stata sempre nel suo cuore. Le sto insegnando che non si può avere tutto, che molti bambini non hanno niente. Io le darò tutto ciò che non ho avuto da piccola, ma non mi riferisco alle cose materiali. Le darò le attenzioni che una bimba ha bisogno, l’amore e l’affetto di una famiglia, la famiglia che non ho avuto alla sua età, ma che ho trovato in seguito.
Con la consapevolezza, sono riuscita a rimuovere in parte la corazza che mi ero costruita per poter andare avanti, superando anni di solitudine e malinconia, un’infanzia rubata, il dover crescere troppo in fretta per difendermi dal mondo, i ricordi indelebili quando ero io e io soltanto. Nonostante la tenera età, mi rattristavo nel vedere bambini che stavano peggio di me, e mi ritenevo fortunata, anche se a mia volta non avevo niente e nessuno.
Il dolore può trasformarsi in amore. Ci sono ferite profonde che si aprono nel cuore di molti bambini. Ciascuno ha una storia da raccontare, ciascuno ha un passato annebbiato da ricostruire, da togliere dal dolore e dalla delusione. Il dolore ti soffoca e ti strappa via l’anima, il fatto di riconoscere ed accettare che il tuo stesso sangue è il primo a farti del male è una delusione cocente, ma nella mente di un bambino c’è posto anche per la speranza che tutto può cambiare.
Il dolore con il tempo se ne va. Se lo lasci prevalere quando ti soffermi a pensare, ti fa soffrire tanto da strapparti le lacrime dagli occhi, il cuore si stringe, l’anima piange. È uno dei momenti in cui senti che l’anima si separa dal corpo.
L’anima però gioisce, se ricorda i pochi attimi di felicità, fatti di cose semplici: persone che ti hanno offerto conforto, che ti hanno teso la mano per farti capire che non eri solo al mondo. Queste persone le ricorderai a vita, anche se non sono più con te o sono lontane. Rappresentano gli affetti più veri e più puri. E così, tutto il dolore che avevi dentro, si trasforma in profondo amore, amore per la vita.
Ho capito subito quali sono le cose che contano, non un giocattolo, ma l’affetto dei propri cari, non i soldi ma la salute, gli stessi valori che sto trasmettendo a mia figlia.
Lei sa che ha tutto se ha noi, la sua mamma e il suo papà.