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Il Treno Dei Bambini

Il treno dei bambini, diretto da Cristina Comencini e tratto dall’omonimo romanzo di Viola Ardone, narra con delicatezza e un ritmo apparentemente leggero una storia di separazione e sopravvivenza, vista attraverso gli occhi di Amerigo Speranza, un bambino cresciuto nei Quartieri Spagnoli di Napoli nel dopoguerra. Un racconto impregnato di macerie, fame e povertà, che, per chi come me è stato adottato, tocca corde profonde e lascia in sospeso riflessioni amare sulla retorica della “vita migliore”.

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Antonietta, la madre di Amerigo, è una figura dura e analfabeta, logorata dalla miseria e dal dolore mai sanato per la perdita del primogenito morto di bronchite. A questa ferita si aggiunge l’assenza di un marito che ha abbandonato la famiglia per cercare fortuna in America. Antonietta cresce Amerigo sola, con un amore sbrigativo, privo di carezze ma intriso di sacrificio. La decisione di affidarlo ai Treni della felicità, l’iniziativa del Partito Comunista Italiano che ha portato migliaia di bambini del Sud nelle famiglie del Centro-Nord, è un gesto che oscilla tra amore e necessità. La speranza è quella di dare al figlio un sollievo dalla fame e dalle macerie.

Amerigo, con la leggerezza dei suoi anni, ci accompagna nel racconto: ama guardare i piedi dei passanti e assegnare punti alle scarpe in base alla loro usura, una passione infantile che stempera la durezza della sua quotidianità. Anche per la madre e i suoi modi spicci trova spazio per una giustificazione divertente: “Quella non è arte sua”. Tuttavia, dietro questa vivacità, si nasconde il dolore profondo della loro condizione.

La scena delle madri alla stazione è struggente e indimenticabile: volti segnati dall’apprensione e dal terrore di non rivedere più i loro figli. Le donne trattengono le lacrime mentre i bambini, inconsapevoli della portata di ciò che sta accadendo, partono pieni di paure nate dalle fantasie del vicinato: “I comunisti ci taglieranno le mani!” o “Ci getteranno nei forni!”. È l’innocenza disarmante dei bambini a rendere la scena ancora più potente: in un momento di separazione così dolorosa, la loro ironia e spensieratezza riempiono di leggerezza un gesto che è, in fondo, un atto di disperazione. Amerigo stringe la mela che gli ha dato la madre prima di salutarlo, e che conserverà finché marcirà, per il timore di dimenticarsi di lei.

Il viaggio sul “treno” diventa il simbolo di un passaggio forzato verso l’ignoto, un cambiamento che dovrebbe migliorare la vita, ma che porta con sé la perdita della propria storia e delle proprie origini. Arrivato a Modena, Amerigo viene accolto da Derna, una militante del Partito, donna sola e inizialmente riluttante ad accoglierlo. Derna impara ad amarlo con affetto e calore, ma è la famiglia della cugina – semplice, affettuosa, capace di offrire cibo, abbracci e persino una festa di compleanno con il dono di un violino costruito dallo zio artigiano – a trasformare la vita di Amerigo. Per il bambino, questa famiglia diventa un rifugio, un mondo nuovo dove c’è spazio per attenzioni, gioia e sicurezza. Nella sua casa adottiva Amerigo impara a suonare il violino, che diventa la sua più grande passione. Aveva conosciuto la musica dal canto della madre che ascoltava affascinato.

SPOILER: Il ritorno a Napoli segna una frattura dolorosa. Amerigo fatica a riadattarsi alla povertà e all’austerità della madre. Antonietta, nel tentativo di riportarlo alla realtà, porta il violino al Monte di Pietà per ricavarne del denaro e rifiuta persino di consegnare ad Amerigo le lettere della famiglia ospitante. Per lei, sognare è un lusso pericoloso e illusorio, mentre la vita dopo la guerra richiede sacrificio e concretezza. Infatti, troverà un lavoro per Amerigo. La figura di Antonietta viene dipinta nella sua durezza, senza lasciare abbastanza spazio al sacrificio d’amore che guida le sue scelte.

Il momento in cui Amerigo fugge di nuovo verso Modena viene raccontato come la scelta naturale di chi trova una vita migliore, un’opportunità che Napoli non poteva offrirgli. Tuttavia, dal punto di vista di un adottato, questa narrazione è problematica: il legame con la madre biologica, pur imperfetto e complesso, viene sacrificato in favore di una nuova famiglia “salvifica”. È la retorica della “vita migliore” che cancella la complessità dei legami naturali e li riduce a un ostacolo da superare quando non sono della qualità che ci si aspetta. Antonietta appare inadeguata, mentre la famiglia ospitante incarna l’idea di amore perfetto, materiale e tangibile.

La separazione, però, non è mai solo un mezzo per la felicità, ma un trauma che lascia ferite profonde e segna l’identità per sempre. Amerigo non sceglie solo una vita migliore: sceglie anche di allontanarsi dalla propria storia, spezzando un legame che, pur imperfetto, è intriso di amore e sacrificio, una scelta che nella vita adulta gli peserà.

Il treno dei bambini commuove, emoziona e racconta con grazia una pagina dimenticata della storia italiana. Ma per chi conosce il peso del distacco e della separazione, il film lascia un retrogusto amaro. La retorica della famiglia ospitante come salvezza rischia di semplificare un dramma ben più complesso, carico di ambivalenze e di dolori spesso inespressi. “A volte ti ama di più chi ti lascia andare che chi ti trattiene”, si dice nel film. Ma chi conosce davvero l’abbandono sa che non esiste una risposta semplice a una separazione così profonda.

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